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Persio Flacco

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Ultimi commenti

  • Di Persio Flacco (---.---.---.160) 14 gennaio 2017 21:18

    Grande macchina. Non a caso l’ISIS l’ha scelta per scorrazzare con le sue mitragliatrici pesanti in lungo e in largo nel deserto tra Iraq e Siria. Ma la qualità decisiva di questa straordinaria macchina è la sua tecnologia stealth: è infatti invisibile anche ai più potenti radar e satelliti americani, per cui è impossibile farne un bersaglio, anche quando in lunghe file si sposta su terreno desertico.

  • Di Persio Flacco (---.---.---.160) 8 gennaio 2017 23:42

    A mio parere si dovrebbe iniziare con la rinuncia all’uso del termine "sinistra", che ormai ha perso il suo significato. Si consideri l’affermazione: "La sinistra sta facendo scelte politiche che alla destra non sarebbe stato consentito di fare".

    Una organizzazione o un individuo è di sinistra se fa politiche di sinistra; se invece fa politiche di destra non può continuare ad essere definita "di sinistra": deve essere definita "di destra". Se accettata, ed è comunemente accettata, l’affermazione fa scomparire l’ossimoro sinistra/destra che contiene facendo apparire invariabile, indipendente dalla realtà, cioè puramente nominalistica, la qualificazione "di sinistra".
    Questo implica lo svuotamento di significato del termine, che oggi può essere rivendicato per sé da un politico come Matteo Renzi e da un partito come il PD, che tutto sono fuorché di sinistra.
    Per questo motivo dichiararsi "di sinistra" oggi significa essere apparentati con un partito come il PD, che è un partito di potere, quindi privo di una vera identità politica.
    Allora sarebbe opportuno ripartire da definizioni che non possono essere impunemente scippate da chi intende farne un uso strumentale, quindi da definizioni con un contenuto dal significato non ambiguo. Ad esempio definendosi marxisti.
  • Di Persio Flacco (---.---.---.160) 7 gennaio 2017 12:16
    Visto che intervengo sull’argomento di economia e finanza ne approfitto per discorrere un po’ anche di teoria. Una teoria (ri)elaborata da un profano dichiarato, benché informato, allo scopo di illuminare una realtà dagli effetti rilevantissimi sulla vita delle persone comuni ma che la categoria degli economisti lascia accuratamente all’oscuro.
    Si tratta di una teoria del valore molto semplice, trattabile senza far ricorso alla matematica, elaborata per spiegare sunomeni altrimenti inspiegabili come le straordinarie oscillazioni che subisce il valore di borsa della aziende quotate e come la penuria di liquidità a disposizione dell’economia reale in presenza di banche centrali che stampano moneta in quantità industriali.
    Il ragionamento è il seguente.
    In un contesto di economia di mercato ideale, contesto semplificato ma non irrealistico, chi detiene il capitale finanziario (Il Finanziere) cerca di ricavare un profitto dal suo impiego investendolo nell’economia reale delle imprese produttrici di beni e servizi (Imprese). E’ ovvio che la realizzazione del profitto, la sua entità, la stessa conservazione del capitale, dipendono dalla capacità del Finanziere nell’individuare le Imprese più promettenti presenti sul mercato nelle quali investire, oltre che dalla sua propensione al rischio.
    Il Finanziere deve quindi saper valutare tutta una serie di parametri che riguardano le Imprese: la solidità patrimoniale, la qualità del management, le prospettive di mercato, la capacità di innovazione. Nel valutare tali parametri il Finanziere deve mettere in campo conoscenza, intelligenza, coraggio. In questo modo, alla ricerca del profitto, il Finanziere opera una selezione tra le Imprese, scartando le peggiori che, senza finanziamenti, sono destinate a soccombere, e premiando le migliori le quali, col contributo del suo capitale, possono crescere ed emergere.
    In questo contesto il profitto ricavato dall’investimento è il giusto compenso per avere usato competenza, intelligenza e coraggio. Allo stesso tempo, e a prescindere dalle motivazioni del Finanziere, il Mercato si avvantaggia della selezione da esso operata che ha premiato le imprese migliori e affossato quelle peggiori. In tale contesto quindi il profitto che compensa l’investimento corrisponde ad una parte del surplus di valore reale creato dalle imprese e va a vantaggio dell’intero sistema economico. Per completezza va aggiunto che ciò non comporta necessariamente un vantaggio per l’intero sistema sociale al quale il sistema economico si riferisce e da cui è ricompreso. Le qualità di competenza, intelligenza, coraggio, dispiegate dal Finanziere, infatti, prescindono totalmente dalle esigenze della società, dalle sue disfunzioni, dalla equa distribuzione della ricchezza. Tutte cure queste che sono a carico della Politica. Fin qui la teoria del valore.
    Il contesto reale purtroppo è assai diverso da quello ideale tratteggiato sopra, ed è assai peggiorato negli ultimi trenta anni.
    Nel contesto reale contemporaneo il Finanziere trova più conveniente investire il suo capitale in impieghi puramente speculativi. Il profitto non deriva più dal surplus di valore reale creato dalle imprese bensì da scommesse sull’andamento di titoli, monete, materie prime, fiducia dei consumatori e degli stessi investitori. Il valore nominale di un’impresa non è più determinato in base all’analisi dei suoi fondamentali, dalle sue prospettive di mercato, dalla sua capacità di innovazione, bensì da quanti scommettono a suo vantaggio o a suo danno, facendo salire o scendere il suo valore nominale.
    L’apoteosi di tale nuovo corso del ruolo del Finanziere è rappresentato dai sistemi automatici che gestiscono le cosiddette HFT, acronimo che sta per "high frequency trading" (transazioni commerciali ad alta frequenza). Potenti algoritmi che girano su computer installati in prossimità del sistema informatico che gestisce la Borsa "annusano" le tendenze degli investitori precedendo i loro ordini e interponendosi ad essi per realizzare transazioni della durata di frazioni si secondo. Il piccolo profitto unitario moltiplicato per milioni di transazioni fornisce al gestore un profitto complessivo considerevole. Senza impiego di competenza, intelligenza, coraggio, è evidente che tale sistema non apporta nulla di positivo al sistema economico. In talune piazze questo genere di investimenti ormai assorbe il 70-80% dei movimenti di capitale che, di conseguenza, non esercitano più la funzione di selezione positiva sul mercato. Il profitto che viene generato non può più essere considerato la giusta remunerazione per il surplus di valore reale creato dalle imprese, deve essere invece considerato come una mera *sottrazione* di valore reale e trasformazione in valore *nominale*. 
    Le HFT non sono il solo espediente oggi in voga nel capitalismo finanziario per creare valore virtuale, mi limito a questo perché lo considero il più emblematico tra quelli che fotografano la metamorfosi subita del ruolo della Finanza dei nostri giorni. Dovrei aggiungere la pletora di micro-trader ai quali aziende di intermediazione hanno fornito un "cruscotto" applicativo grazie al quale, dal computer di casa, possono giocarsi lo stipendio o la pensione scommettendo su titoli, materie prime, monete. Con quale competenza, intelligenza, coraggio, è facile immaginare. Questo sarebbe da considerare un fenomeno marginale, se non fosse che nel complesso questi micro-trader costituiscono ormai una massa critica rilevante. Che ha una particolarità: si presta egregiamente ad essere manovrata dai grandi investitori.
    Bene, leggendo gli economisti che pubblicano le loro analisi sui mass media niente di tutto questo sembra essere rilevante. Così come negli anni che precedettero la crisi del 2007/2008 non era considerata rilevante, né apparentemente era stata rilevata, la gigantesca bolla speculativa che si andava gonfiando sui derivati al sottostante dei mutui subprime statunitensi.
    Gli economisti continuano a trattare delle traversie dei mercati finanziari come se le sue macroscopiche degenerazioni non esistessero e dunque non avessero alcuna influenza. Ed è addirittura comico sentire gli esperti di borsa arrampicarsi sugli specchi per tentare di giustificare con motivi di economia reale le spettacolari variazioni del valore nominale dei titoli quotati. Spesso, quando nulla di reale può giustificare un crollo vertiginoso, o un altrettanto vertiginosa ascesa, il loro imbarazzo è palpabile.
    Tutto questo, mi duole dirlo, mi conferma nell’opinione maturata in occasione della crisi del 2007/2008: della categoria degli economisti non ci si può fidare. Lungi dall’essere studiosi imparziali, sono tutti conniventi con i maestri della speculazione e con i loro manutengoli della politica.
  • Di Persio Flacco (---.---.---.160) 6 gennaio 2017 22:01

    Chiedo venia per il doppio invio.

  • Di Persio Flacco (---.---.---.160) 6 gennaio 2017 21:59
    In materia di Economia potrei definirmi un profano informato, dunque il valore dei miei ragionamenti vanno inscritti in questa cornice. A chi si sta chiedendo legittimamente: "Ma allora perché intervieni su una materia che non conosci? Faresti meglio a tacere e a lasciar parlare gli esperti." rispondo: perché le dinamiche economiche mi riguardano, influiscono direttamente sui miei interessi primari e perché non mi fido affatto della categoria degli economisti.
    Prima della crisi finanziaria del 2007/2008 ero felicemente un profano senza aggettivi. Dopo la crisi, avendo constatato la fenomenale debacle mondiale dei depositari della scienza economica nel prevederla, avendo preso atto che la credibilità delle decine, delle centinaia, di esperti economisti che quotidianamente pontificavano sui mass media distillando la loro sapienza al volgo, era caduta rovinosamente a zero, ho iniziato ad informarmi. Ed è questo a legittimare il mio intervento.
    Alcune affermazioni:
    La prima riguarda in generale l’Economia. Qualunque ragionamento o previsione in materia di economia e finanza che non tenga conto dei più rilevanti aspetti della realtà politica, sociale e anche culturale di un certo contesto e delle sue relazioni in ambito geopolitico, è priva di fondamento.
    La seconda riguarda l’Unione Europea. Attualmente la governance della UE presenta un marcato deficit quanto a capacità e affidabilità del management. In breve: la UE è come un’azienda i cui vertici sono agli ordini del suo maggiore concorrente. E’ evidentemente incapace di badare agli interessi dei soci ma li comanda a bacchetta.
    La terza sul Regno Unito. Come è noto, grazie alla speculazione di Soros, che ora ci ammonisce a salvare l’Unione, la Sterlina dovette uscire dallo SME per non rientrarvi più, rimanendo quindi fuori dalla moneta unica. E così è rimasta: con un piede nell’Unione e con l’altro fuori. A ciò hanno concorso la mentalità isolana; la memoria imperiale e la collana di paradisi fiscali, sotto forma di protettorati della Corona, come succedaneo dell’impero perduto; lo speciale rapporto con gli USA, fondato su una serie di affinità in svariati campi, non ultimo quello della leadership condivisa sulla rivoluzione neoliberista inaugurata da Tatcher e Reagan.
    La Brexit deriva dalla pressione imposta alle classi medio basse dell’UK dalla crisi economica indotta dal crollo finanziario del 2007/2008 rafforzata dal deficit di governance dell’Unione. I cittadini del Regno Unito hanno percepito la permanenza nell’Unione Europea come un’àncora che rischiava di trascinare al fondo la sua economia e la crescente pressione ad uniformare le normative del loro Paese come una minaccia alla loro identità culturale.
    Il Regno Unito non è il solo Paese membro dell’Unione in cui sono presenti queste tendenze di fondo, ma era il solo che poteva permettersi di non subire traumi dell’uscita dall’Euro essendone già fuori.
    Prospettive. 
    Priva di una governance votata a tutelare unicamente i suoi interessi, lo spazio economico europeo è destinato ad un lento ed inevitabile deterioramento fino a una improvvisa crisi. Senza istituzioni trasparenti e democratiche la fiducia dei cittadini europei nell’Unione non potrà risalire la china in cui è caduta, e senza la fiducia dei cittadini non è più possibile alcuna seria riforma che ponga rimedio alla sua debolezza strutturale che espella e sostituisca la classe dirigente incapace e infedele che attualmente la guida.
    Se questa è la realtà, e credo che lo sia, i sistemi economico produttivi dei Paesi membri vireranno sempre più marcatamente verso una mentalità nazionalistica, ponendo in tal modo spontaneamente le basi del dopo UE. Ad iniziare dalla Germania, ovviamente, poi dall’Austria e dai Paesi Bassi, e dalla Francia, con i suoi satelliti, e via via dagli altri, dando vita a macroregioni economiche unite da comuni e immediati interessi di mercato.
    A noi italiani, oppressi da una dittatura partitocratica corrotta e corruttrice che nulla ha fatto per porre rimedio alle nostre tare, non rimarrà che ricordare le rime del Padre Dante, sperando che qualcuno ci compri per un tozzo di pane.
    Sarei curioso di sapere quali indicazioni darebbe un esperto di economia se questo scenario fosse realistico.

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