Tremonti/Fiat: chi di statalismo ferisce

par Phastidio
domenica 31 maggio 2009

Il nostro ministro dell’Economia si lamenta per l’esito della trattativa su Opel:

L’industria italiana, ha detto Tremonti in una intervista al Tg1, “è andata là convinta di giocare con le regole del mercato e quindi ha informato il governo, non ha chiesto niente. Io penso che il presidente Berlusconi con la sua influenza avrebbe potuto fare molto”, ha aggiunto. “Sono partiti per giocare a calcio - ha aggiunto - Invece hanno cambiato il tipo di gioco, si son messi a giocare a rugby hanno preso la palla con le mani, hanno spintonato - ha detto ancora - Son scesi in campo i governi, il governo tedesco, il governo russo”, che dopo le banche “ora si occupano di industria”.

Quello che parla deve essere il fratello gemello del Tremonti che da anni pontifica contro il mercatismo e magnifica la superiore razionalità dello stato nella capacità di guida strategica e di indirizzo dell’economia. Ricordate la ormai celeberrima frase “Il mercato se possibile, lo stato se necessario“? Ecco, è successo proprio quello.

Si perché, con buona pace del deficit analitico di Tremonti, il gigantesco riassetto dell’industria automobilistica mondiale (altre operazioni-monstre verranno, è solo questione di tempo) nasce come ovvia risposta alla crisi globale, all’enorme eccesso di capacità produttiva del settore, anche in presenza delle prospettive di sviluppo dei mercati emergenti, che tuttavia difficilmente saranno colonizzati da marche occidentali perché poche industrie hanno una componente nazionale e nazionalistica come quella dell’auto. Pensare che tutto si sarebbe risolto in un provvidenziale lavacro di mercato era da ingenui.

E’ dall’inizio di questa Grande Recessione che l’altro Tremonti, il pamphlettista, fa che scorrere un brivido di compiacimento intellettuale lungo la schiena di molti nostri megadirettori di giornali per l”‘acutezza della sua visione strategica”, ci ricorda e proclama che in questa crisi gli aiuti di stato si sono trasformati “da peccato a necessità”. La partita del riassetto del settore globale dell’auto altro non è che questo. Oppure Tremonti (e molti altri acuti osservatori con lui) pensa davvero che, in una radiosa mattina di primavera, Sergio Marchionne abbia scoperto un pozzo di liquidità illimitata con la quale andare a fare la spesa in giro per il mondo, in sella ad una Croma bianca? I conti sono là da vedere, come anche l’obiettivo strategico della ormai pletorica famiglia Agnelli: scorporare Fiat Auto (che da sempre opera nei dintorni del rosso) e conferirla ad una entità globale, sfruttando la paura dei governi e l’eclissi di regole del mercato già piuttosto attenuate.

E’ andata come doveva andare: il governo tedesco non poteva permettersi eccessive “razionalizzazioni” degli organici di Opel, soprattutto a pochi mesi dalle elezioni generali, con i sindacati sul piede di guerra. La casa-madre GM, (che domani, 1 giugno, entrerà nella procedura di Chapter 11 e si cercherà un partner-padrone forte) rilancia per estrarre quanta più polpa possibile dalla transazione. Dall’altro lato del tavolo la Russia di Putin e degli oligarchi, ansiosi di diversificare in un settore diverso da quello energetico, ma usando nei confronti della Germania il forte leverage geostrategico del gas, costruito anche grazie all’indefessa azione del lobbista Gerhard Schroeder, in un inviluppo di interessi politici che fa apparire gli italici maneggi in economia un innocuo passatempo. Qualcuno pensava realisticamente che, di fronte ad una simile congiunzione astrale, Fiat e l’Italia avessero una qualche possibilità di “vittoria”? L’unica importante leva geopolitica italiana è Eni, ed ha già conseguito un rilevante successo nei giorni scorsi. Se poi sarà un successo anche per l’Italia lo scopriremo solo vivendo, ma è noto che Eni è un’entità che prescinde dall’inquilino pro-tempore di Palazzo Chigi, da sempre.

Magna-Sberbank-Gaz-Opel nasce rachitica, il piano industriale Fiat sulla carta era certamente qualcosa di più strutturato e razionale. Ma lamentarsi dell’assenza del mercato in questa congiuntura è da sprovveduti. Soprattutto se la lamentela viene dall’uomo che l’ha giurata al “mercatismo”, qualunque cosa questo termine possa significare.


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