Traiettorie sociologiche. L’uomo che inventò la globalizzazione

par Traiettorie Sociologiche
venerdì 27 novembre 2009

Generalmente con globalizzazione si intende un fenomeno puramente contemporaneo, nato attorno ai primi anni Ottanta del Novecento; ma davvero possiamo ritenere che sia così?
 
In realtà ritroviamo l’origine delle caratteristiche tipiche della moderna globalizzazione fin dall’ultimo Ottocento, tenendo però comunque fermo il punto che essa resta un fenomeno originatosi decisamente nella cultura americana.
Potrebbe apparire davvero azzardato anticiparne la genesi di ben quasi un secolo, ma come si vedrà è possibile incontrare delle similitudini tra la politica imperiale degli Stati Uniti del XIX e quella del XXI secolo.
 
Cerchiamo innanzitutto di definire qual è realmente il motore della globalizzazione.
Si ritiene sbadatamente che sia il denaro a far, per così dire, girare il mondo; in realtà ciò che davvero crea ricchezza e potere globale è qualcosa di molto più tragico: la guerra. Essa produce un arricchimento interno nella società militarmente più avanzata; ma ancor di più afferma coattivamente i valori e le regole dell’economia del paese vincitore sui paesi sconfitti. E gli Stati Uniti d’America sono tra le potenze mondiali quella che ha fatto dell’espansione militare il suo fine, più dell’impero romano, che se vogliamo fu già un impero globale.
 
Già dalla fine dell’Ottocento il potere economico-industriale dello Zio Sam aveva avuto un boom nella produzione interna di gran lunga superiore alle potenze europee, che infatti dovettero supportare con le economie satelliti delle colonie i loro mercati interni.
 
Per gli USA il processo fu differente; qui non ci fu una spinta imperiale dovuta al rafforzamento della produzione interna, ma più che altro fu la teoria del Manifest destiny, che aveva dato per così dire la carica ai primi americani nella conquista dei nuovi territori, a spingere ben oltre i confini della madrepatria.
 
La spinta più forte, quasi estrema, a questa teoria si ebbe con un veterano della guerra cubana di fine Ottocento che a capo di un battaglione, i Rough Riders, contribuì a sottrarre la patria del sigaro più famoso al mondo alla ormai spenta Spagna.
 
Il suo nome era Theodore Roosevelt.
Ma all’epoca gli States erano davvero un paese di grandi opportunità?
Da quello che traspare leggendo il romanzo Cuba Libre di Elmore Leonard, grande icona della letteratura americana del Novecento, parrebbe che le cose non stessero proprio così. Nel libro l’autore col suo tipico tono da frontierman scanzonato, attaccabrighe e libero come l’aria, ci presenta un società americana dove erano comunque attivi i rapporti commerciali, più che tra i due stati, USA e Cuba, tra gli abitanti dei rispettivi luoghi.
 
I protagonisti texani infatti si recano nell’isola per vendere cavalli. Ed è così che apprendiamo come i due mondi non fossero in realtà così differenti; c’erano puttane, bari, farmers anche nell’isola caraibica. Difatti i protagonisti americani sembrano muoversi in un ambiente a loro congeniale.
 
Verrebbe quasi da dire che per i mandriani del middle west, la frontiera non era più la dorata California, né il duro e arido Messico, ma la pigra e assolata Cuba. Qui si veniva dunque per arricchirsi e far affari. Possiamo quindi ritenere che proprio per questo motivo commerciale gli States volessero strapparla alla Spagna?
Si, ma non solo. L’America, ormai affascinata anch’essa dall’imperialismo, non poteva affatto tollerare che un paese così vicino a lei fosse un avamposto europeo;questi dunque furono i motivi per cui la nascente potenza imperiale decise di conquistare l’isola.
 
Di questo Leonard ce ne parla diffusamente.
Gli yankees sapevano che il loro governo stava preparandosi alla guerra, e i cubani pure; ma la cosa che più sorprende scorrendo le pagine di questa affascinate avventura, è che entrambi sembravano fregarsene altamente. Quello infatti che emerge chiaramente è il sempreverde spirito di fraternizzazione che il popolo americano mostrava verso tutti, e dall’altra parte un popolo che trascorreva le sue giornate in una stanca apatia, sotto il cocente sole dei Caraibi. Dal romanzo traspare inoltre la semplicità non solo della vita dei protagonisti, ma anche dei valori dell’epoca che erano ovunque legati alla terra.
 
Già nel 1894 Roosevelt aveva espresso la teoria politica che lo avrebbe sempre motivato: “Una civiltà pacifica e commerciale corre sempre il pericolo di perdere le virili qualità combattenti in assenza delle quali nessuna nazione - per quanto acculturata, prospera e rigogliosa - potrà mai ambire a essere qualcosa” (Del Pero, pag. 164). L’America doveva per forza di cose espandersi per sostenere non la sua economia, ma innanzitutto la sua missione divina.
 
Afghanistan, Iraq, “asse del male”, guerra preventiva; davvero continuano ad apparire come una novità?
 
Ma andiamo avanti, anzi, indietro.
Con la “splendida piccola guerra” del 1898 gli States acquisirono anche Puerto Rico e le Filippine, e fecero di Cuba un protettorato. Nel suo Cuba Libre l’autore sembra ridimensionare il ruolo dello stesso Roosevelt in quel conflitto, facendo anche dell’ironia su di lui attraverso le parole dei protagonisti. Lo stesso pretesto per la guerra, e cioè il mai ben chiarito affondamento della corazzata Maine, sembra essere stato creato proprio ad arte per facilitare il conflitto.
 
Ma quella che emerge prima di tutto dal libro è la descrizione di una società già afflitta da mali come il razzismo, il desiderio di riscatto sociale, e chiaramente l’ascesa militare degli States; anche se si può ritenere che i due popoli non si sentissero davvero nemici, come probabilmente non lo sono nemmeno oggi. 
Roosevelt già segretario alla Marina, sarebbe poi diventato il ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti dopo l’assassinio di William McKinley nel 1901.
 
In politica interna si trovò da subito a contrastare i poteri forti delle corporations; egli infatti riteneva che queste ultime dovessero essere punite quando cercavano di affermare una condizione di monopolio nel mercato interno (AA.VV., pag. 668). Era inoltre convinto che andassero regolate, non combattute dal governo (Testi, pag. 83); un secolo dopo l’impossibilità di controllo da parte del governo federale avrebbe poi condotto a quella tragica crisi mondiale che ha portato il mondo sull’orlo della catastrofe. Ovviamente la crisi interna all’economia statunitense fu dovuta anche alla sgangherata guerra al terrore globale di George Bush jr. (De Notaris).
 
Come si può notare questo era un tema già presente, seppur in una forma embrionale, più di un secolo fa. E difatti i protagonisti del opera di Leonard appartengono al sud, che era sempre stato storicamente più aperto ai commerci internazionali del nord, decisamente più protezionista.
 
Roosevelt sciolse alcune di queste corporations e riaffermò il controllo diretto dello stato nella gestione della sua economia interna. Nel 1904 alla sua seconda elezione egli spinse il Congresso ad attuare norme in difesa dei consumatori contro i cibi adulterati e l’uso di additivi chimici (Testi, pag. 83), ma soprattutto potenziò la tutela delle ricchezze naturali (AA. VV., pag. 669); questioni tutt’oggi irrisolte.
 
In politica estera gli USA dovevano quindi civilizzare il mondo, a cominciare dal loro emisfero di appartenenza. La guerra aveva per “Teddy” un valenza rigeneratrice, ordinatrice e civilizzatrice (Del Pero, pag. 176); gli Stati Uniti non potevano sottrarsi nell’aiutare l’evoluzione del popolo delle Filippine ad esempio, o delle Hawaii. Questi paesi sottomessi avevano però chiaramente anche un utilità strategica. Tramite essi infatti si sarebbe potuto controllare il mercato del Pacifico e quindi quello asiatico, portando ovviamente profitti alle proprie corporations.
 
Già nel 1903 il presidente aveva favorito una rivoluzione in Colombia per avviare la costruzione del canale di Panama, con la conseguente genesi della Repubblica omonima - altro protettorato statunitense - che aveva la finalità di favorire le rotte commerciali tra i due oceani; tutto a vantaggio dell’economia a stelle e strisce, che praticamente adesso controllava sia l’America latina, sia le rotte del Pacifico, e poi pure quelle dell’Atlantico. Lo stesso Leonard nel suo romanzo ci mostra, con acuti accenni, il numero crescente delle navi da guerra stars and stripes, ormai sempre più presenti in America centrale. 
 
Roosevelt quindi come globalizzatore ante litteram. Ma andiamo avanti. 
La costruzione del canale avrebbe permesso di aumentare il volume dei traffici commerciali e di valorizzare appieno il controllo statunitense dei Caraibi, cosicché la proiezione degli interessi e della potenza USA avrebbero potuto acquisire una dimensione quasi globale. Con il canale di Panama gli Stati Uniti assumevano il ruolo di garanti del libero commercio (Del Pero, pag. 182, 183).
 
In conclusione ancora un ultimo esempio per comprendere meglio la compenetrazione dei concetti di globalizzazione dell’inizio e della fine del Novecento: la Repubblica dominicana.
 
Qui gli Stati Uniti di Roosevelt applicarono quella che sarà poi definita la “diplomazia del dollaro”.
 
Premessa fondamentale era l’affermazione del gold standard, utile per facilitare gli scambi ed estendere un interdipendenza commerciale. Questo concetto si ripresenterà in maniera praticamente identica all’indomani della seconda guerra mondiale, facilitando l’ingresso delle multinazionali americane nel mercato europeo in nome del piano Marshall, e producendo una dipendenza dagli Stati Uniti e dal dollaro.
 
Ritornando poi alla Repubblica dominicana, quell’atto chiaramente riduceva la sovranità del piccolo stato, ma permetteva agli USA di condizionare gli avvenimenti in zone strategicamente vitali (Del Pero, pag. 186, 187).
Da qui alla moderna globalizzazione il passo sarà davvero breve.
 
Letture
 
AA.VV., La Storia, vol. XII, Utet, Torino, 2004
Del Pero M., Libertà e Impero, Laterza, Roma-Bari, 2008
De Notaris G., La Bibbia e la pistola fumante di George Walker Bush, in “Quaderni d’Altri Tempi”, n°17, novembre/dicembre 2008, http://www.quadernidaltritempi.eu/rivista/numero17/02bussole/q17_bush01.htm
Leonard E., Cuba Libre, 1998, trad. it., Cuba Libre, Net, Milano, 2004
Testi A., Il secolo degli Stati Uniti, Il Mulino, Bologna, 2008 
 
 
Con la collaborazione di Quaderni d’altri tempi
 
Bio dell’autore: Giovanni De Notaris (Napoli 1976) si è laureato nel 2000 in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli.

 

Dopo aver conseguito nel 2003 il Master in Arte e Culture presso lo stesso Ateneo ha cominciato ad interessarsi attivamente agli Stati Uniti con particolare riferimento alla figura di George Armstrong Custer e all’Ottocento americano.

Al momento è laureando magistrale in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi Federico II di Napoli.

 

giovanni.denotaris@gmail.com


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