Quando fare il giornalista vale più della vita

par Francesco
martedì 3 novembre 2009

Ci sono tantissimi uomini e donne nel mondo che ogni giorno rischiano la vita, la libertà o entrambe, semplicemente perché cercano di raccontare la verità. La maggior parte delle persone probabilmente non riesce a capire perché lo fanno. Il problema è che la parola giornalista non è una buona definizione della categoria, perché include tre diversi comportamenti che non hanno niente a che fare l’uno con l’altro.

Ci sono i giornalisti che scrivono e raccontano solo quello che piace al loro padrone, e vengono chiamati in questo modo anche se non ne sono per nulla degni della parola. L’esistenza stessa di questo tipo di giornalisti discredita la categoria perché non fanno affatto giornalismo, ma la peggiore propaganda. Poi c’è un secondo tipo di giornalista che fa semplicemente il compito per cui viene pagato senza farsi e senza fare domande, e questi nemmeno sono giornalisti, ma impiegati di un gruppo editoriale. 

Infine ci sono i veri giornalisti, che in fondo sono una minoranza della categoria ma gli unici degni di portare questo nome. Come i tanti giornalisti africani che finiscono in prigione o uccisi perché si ostinano a dire la verità in faccia alle menzogne dei rispettivi regimi. L’Eritrea, l’ultima nazione al mondo per libertà di stampa secondo Reporters Sans Frontieres, ha 30 giornalisti in prigione. Come Cina e Iran, ma con una popolazione molto inferiore. In Somalia, uno stato distrutto da vent’anni di guerra, 6 giornalisti sono stati uccisi da gruppi armati solo quest’anno, e una giornalista canadese e un australiano sono tenuti prigionieri da 14 mesi. In Madagascar Ando Ratovonirina aveva 25 anni quando è stato ucciso mentre seguiva una manifestazione dell’opposizione. Bruno Jacquet Ossebì, che investigava su un grosso caso di corruzione tra l’Africa e la Francia, è morto in Congo nell’incendio della sua casa. La nazione vicina, la Repubblica Democratica del Congo, è da anni ostaggio di una guerra civile permanente, soprattutto nella regione del Sud Kivu, dove 2 giornalisti sono stati uccisi quest’anno. In Nigeria, un altro paese dove i giornalisti subiscono continue minacce, Bayo Ohu è stato assassinato sulla porta di casa sua. Altre nazioni hanno governi che hanno spesso minacciato, intimidito e imprigionato i giornalisti, come la Mauritania, il Gabon, la Guinea, il Rwanda, la Guinea equatoriale, Niger, Gambia e Zimbabwe.

Nell’America Centrale tanti giornalisti sono stati uccisi dal crimine organizzato o da gruppi paramilitari, come in Messico, 9 uccisi quest’anno, 55 dal 2000 a oggi, Guatemala, El Salvador, Colombia. Altri stati hanno governi che impediscono di fatto la libertà di stampa, come Cuba, o la rendono molto difficile, come l’Honduras dopo il recente colpo di stato. 



L’Asia ha molti governi autoritari che censurano la stampa e imprigionano chiunque tenti di spezzare la cortina di silenzio imposta dai governi sulla loro corruzione, come in Cina, Vietnam, Laos, Birmania, Corea del Nord e tanti altri governi teoricamente meno autoritari dove comunque i giornalisti vengono censurati e arrestati come in Corea del Sud, Malesia e Thailandia, e anche uccisi, come in Sri Lanka o nelle Filippine. In Pakistan e Afghanistan i giornalisti vengono intimiditi e arrestati dalle forze governative e uccisi dai talibani. In Iran la situazione è nota per la sua gravità, con oppositori e blogger arrestati, torturati e uccisi in carcere. Ma in tutto il mondo arabo la libertà di stampa praticamente non esiste, a parte in Marocco, dove subisce comunque forti limitazioni e in Libano e Iraq, dove però i giornalisti vengono spesso minacciati e uccisi dalle diverse fazioni in conflitto. In Turchia ancora non c’è giustizia per la morte di Hrant Dint, mentre altri giornalisti vengono minacciati, picchiati e arrestati. Situazione pessima in molti paesi dell’ex Urss e nella stessa Russia, dove non solo non sono mai stati individuati i mandanti dell’omicidio di Anna Politkovskaya, ma quest’anno sono state uccise altre due giornaliste, Natalia Estemirova e Anastasia Baburova, e due attivisti per i diritti umani. 

Tanti nel mondo rischiano la vita per dire la verità. 760 giornalisti sono stati uccisi dal 1992 a oggi, 53 nel 2009. Persone che dimostrano una dignità umana molto superiore a tanti giornalisti dei ricchi paesi occidentali che hanno paura di offendere i potenti anche quando al massimo rischiano soltanto i loro alti stipendi. O che si nascondono dietro la vergognosa ipocrisia per cui i giornalisti dovrebbero essere neutrali, un’atteggiamento che ha precipitato anche il giornalismo anglosassone nel suo punto più basso quando Bush e Blair hanno giustificato una guerra fondata su una marea di menzogne nella passiva acquiescenza della maggior parte dei giornalisti americani e inglesi. Il compito di un giornalista degno di questo nome non è soltanto riportare i comunicati dei governi, ma verificare se corrispondono alla verità. Il potere che non viene controllato dall’opinione pubblica può commettere di nascosto i peggiori abusi. 

Ma certo, molta gente probabilmente non capisce perché alcuni non si adattano, non accettano lo stato delle cose e cercano la verità nonostante tutto, nonostante le minacce del Potere e l’indifferenza di molti, troppi dei loro concittadini. Perché lo fanno? Alcuni probabilmente non pensavano di rischiare la vita o la prigione quando hanno iniziato il loro lavoro. Altri lo sapevano e lo hanno fatto lo stesso, forse perché la verità è più importante della vita, o meglio la vita non ha molto significato senza la verità e chi tace di fronte all’ingiustizia e al male ne è complice.


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