Le bugie di Dell’Utri e i silenzi dei giornali

par Federico Pignalberi
lunedì 7 dicembre 2009

Era solo un udienza tecnica, quella di venerdì scorso a Torino. Il pentito Gaspare Spatuzza avrebbe dovuto confermare in aula le accuse già formulate alle procure antimafia contro il senatore Dell’Utri. Nient’altro. Nessuna “bomba atomica” sarebbe potuta esplodere: i giornalisti l’hanno disinnescata da anni.

Eppure intorno a questa udienza è stato creato un caso mediatico. Dirette, annunci, interviste, tv, misure di sicurezza straordinarie e un plotone di duecento giornalisti. Nessuna esagerazione: il processo Dell’Utri è senz’altro il processo eccellente di maggiore interesse di questo decennio. Un processo che, però, è andato avanti fino a questa estate privo di qualsiasi copertura mediatica. Senza una breve sui giornali. Persino l’Ansa nascondeva dal suo sito i resoconti delle udienze. L’udienza di venerdì è bastata ai giornalisti per lavarsi la coscienza. Un lavaggio veloce, toccata e fuga, senza notizie vere. Come successe per il maxi-processo di Falcone e Borsellino, quando i giornalisti si ritirarono da Palermo subito dopo la prima udienza. Quando Il Giornale di Montanelli lo chiamava “quello scontro annunciato che è il processone alle cosche”. Quando Il Giornale di Sicilia per giustificare il proprio silenzio sul processo titolava, in uno stile che oggi definiremmo minzoliniano, “Non facciamo del processo uno spettacolo da baraccone”. Il tempo passa, l’ipocrisia del giornalismo italiano no.

Lo dimostrano le domande penose dei giornalisti dopo il processo. Uno di loro ha chiesto al procuratore generale: “Lei non teme una smentita dai Graviano”? Il pg, giustamente indispettito, ha risposto: “Ma io non temo niente, perché io cerco la verità: se conferma, conferma. Se smentisce, smentisce. Non è che io voglio che lui confermi, né voglio che lui smentisca. Voglio che lui dica il vero. Se il vero è smentire, smentirà. Io non temo proprio niente.”

Oltre ai giornalisti berlusconizzati nel pensiero, secondo cui il pm corrisponde all’avvocato dell’accusa, ci sono i più tradizionali reticenti. Sono i giornalisti che a fine udienza circondano il senatore per porgli tutti la stessa domanda: “Cosa pensa di quello che ha detto Spatuzza?”. O la variante temeraria: “Ha mai conosciuto i Graviano?”. Lui, esercitando il suo legittimo diritto a difendersi, nega tutto e urla al complotto. Ma a fine smentita, riceve in risposta sempre le stesse domande. Quando dice che Spatuzza complotta ai suoi danni perché “se ne esce fuori dopo quindici anni”, nessun giornalista gli fa notare che Spatuzza non è il primo pentito a parlare, oltre che di una trattativa tra Cosa Nostra e Forza Italia, dei suoi rapporti con i Graviano. I pentiti (Antonino Giuffré, Gioacchino Pennino, Tullio Cannella, per citarne alcuni) ne parlano già da anni. Nessun giornalista gli chiede perché avesse annotato nella sua agenda un appuntamento con due favoreggiatori della latitanza dei Graviano insieme ai loro numeri di telefono. Nessun giornalista gli fa notare che c’è un intero capitolo nella sentenza di primo grado del processo intitolato “I Graviano”. Perché i giornalisti italiani non sono solo codardi, ma anche ignoranti con poca voglia di studiare.

L’unica giornalista che si contraddistingue in questa fanghiglia è Antonella Mascali de Il Fatto Quotidiano, che, per avere chiesto al senatore il motivo per cui consideri Vittorio Mangano, lo stalliere mafioso di casa Berlusconi, più attendibile di Spatuzza, viene presa a parolacce. E intorno a lei, da quella folla scombinata di giornalisti in lotta per avvicinare i loro microfoni a Dell’Utri, non si leva una sola voce in sua difesa. Un giornalista avrebbe potuto, anzi, rincarare la dose e chiedergli, già che la sua difesa ritiene Spatuzza inaffidabile in quanto ex mafioso e assassino, se per lo stesso motivo non si potrebbe ritenere inaffidabile l’avvocato Antonino Mormino, azzeccagarbugli di Dell’Utri, già difensore di Totò Riina, Luchino Bagarella e Antonino Giuffré, egli stesso indagato (e poi archiviato) per mafia e favoreggiamento, quindi promosso parlamentare di Forza Italia. E avrebbe potuto far notare a Dell’Utri che l’affidabilità di un pentito non dipende da quanti omicidi ha commesso, ma da quanto dice la verità. Come ha detto il pg Gatto in udienza: “Le buone persone non sanno niente. Le persone più sono cattive, più cose sanno”. E magari lo stesso giornalista avrebbe potuto chiedere a Dell’Utri per quale motivo l’unico pentito ritenuto attendibile dalla sua difesa, Cosimo Cirfeta, è stato smentito da risultanze oggettive e quindi processato, prima di morire, per calunnia ai danni degli altri pentiti. Ma in aula, al posto dei giornalisti, c’era solo un branco di vigliacchi occupati a difendere anni di silenzi.

Antonella Mascali, con la sua domanda, ha smascherato, più che Dell’Utri, i tanti luoghi comuni sulla libertà di stampa in Italia. Il problema, diceva Leo Longanesi, “non è la libertà che manca, mancano gli uomini liberi”.

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