La condizione del lavoro non rende liberi

par materialeresistente
lunedì 28 dicembre 2009

Hanno rubato la scritta che campeggiava sul lager. Quella scritta dice "il lavoro rende liberi". Nella gabbia della nostra vita il lavoro è fonte di ricchezza; non tanto per quello che dà economicamente quanto per ciò che regala in termini di relazioni, comunità, appartenenza. Ma quando ti manca? Quando te lo tolgono? Questo post è dedicato a quanti si sono tolti la vita e la speranza per un posto di lavoro.

  • Da La Repubblica di qualche mese fa
    "Incidenti fotocopia a Caserta e a Teramo. Nella città campana la vittima aveva 39 anni ed era sposato con figli. In Abruzzo ucciso un romeno di 44 anni"
  • Solo ieri e l’altro ieri abbiamo contabilizzato un altro morto a Genova, tra i camalli, ed un altro sulla Torino Savona tra i camionisti.

Questa è la contabilità a cui mancano gli invalidi, quelli non contabilizzati perché il cancro non fa fede, quelli che si sono suicidati perché a loro il lavoro manca ed altro ancora.
 
Qualche tempo fa, qui da noi a Torino, un operaio della Thyssen si è impiccato. Dicono che quando ti appendi ad un cappio ci metti un po’ a morire. Ti pisci addosso e lo sfintere non tiene. Se sei fortunato ti si rompe l’osso del collo, altrimenti aspetti che l’ossigeno non arrivi più ai polmoni. Ti agiti e forse provi a liberarti. La questione è che ti manca la forza e la lucidità per cambiare corso a quella decisione.
 
Qualche settimana dopo, in Sicilia, un altro si dette fuoco. Quando la Fiat si ristrutturò, negli anni ’80, 150 persone si suicidarono. Ancora prima che in Francia da noi la depressione, il senso di vuoto, per la mancanza di un posto, fece una strage tra gli operai Fiat licenziati e messi in cassa integrazione da Romiti e soci.

In qualche post dotto, di qualche tempo fa, si parlava delle eredità negative del ’68. Una di queste era la messa in discussione del "lavoro" come fonte di ricchezza, come elemento nobilitante della condizione umana. Si contestava questa eredità, rimarcando come neanche Marx arrivasse a tanto nella sua critica ai meccanismi dell’economia liberale e borghese.


Era evidente la distorsione del pensiero, Marx in realtà ha sostenuto che "una volta realizzatesi determinate condizioni e trasformazioni oggettive e soggettive, il lavoro non sarebbe stato più un mezzo per guadagnarsi da vivere, ma il principale bisogno dell’uomo".

Quello che rimane del lavoro, per gran parte delle persone, è l’estraniazione che esso fornisce rispetto al suo risultato ultimo a chi è produttore di quel risultato. Il lavoro è, per gli economisti, un fattore della produzione. Un costo e non una condizione di vita di un soggetto.

Se quello è il perimetro, l’essenza positiva del lavoro è dato per lo più (in una società come la nostra) dalle possibilità che il reddito che ne ricavi possa rendere "ricco" il tuo tempo di non lavoro. La misura è ciò che riesci a consumare in più rispetto a ciò che ti serve per sopravvivere. Oggi per molte persone la soddisfazione è in quello. Non nel lavoro.
 
Se sei fortunato e ti gira bene (fai l’avvocato o lo scrittore ad esempio) nella natura stessa della tua attività puoi trovare qualcosa in più rispetto alla massa delle persone.

Al contrario non aspetti altro che il tempo scada per toglierti dalle balle e riprenderti un po’ del tuo tempo.
 
Questa condizione qualcuno, nel ’68 prima e nel ’77 poi, l’ha evidenziata e portata in superficie. Ha contestato il lavoro perché contestava quella condizione dell’individuo.
 
Oggi quando sei stretto tra l’alienazione della tua condizione e la fatica di sopravvivere cosa ti rimane? Non ci sono più soggetti interessati a riorganizzare per trasformarla quella condizione. A darti una speranza. E allora ci tocca contare, insieme a chi cade da un’impalcatura, chi preferisce chiudere con una corda o una tanica di benzina il suo passaggio.
 

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