Il movimento no global ha perso e la globalizzazione ha vinto

par Michele Mezza
martedì 1 dicembre 2009

Checche ne dica Tremonti è un’ottima cosa e non il trionfo del potere americano. Ma bisogna andare oltre e trovare una politica che esprima tale realtà.

 Dieci anni fa esattamente in queste ore si proponeva, sulla scena geopolitica del pianeta, quella che qualcuno si affrettò a definire la seconda superpotenza, dopo gli Stati Uniti: il movimento no global
 
Nelle strade di Seattle si celebrava il trionfo di una davvero bizzarra convergenza fra anarchici attempati, ecologisti fantasiosi, sindacalisti corporativi americani e difensori dei sussidi alla grassa agricoltura europea. 
 
 Il loro nemico non era il solito tronfio egemonismo americano, ma una nuova dinamica economica, appunto chiamata globalizzazione, che stava tracimando dagli argini che lo stesso capitalismo occidentale cercava di frapporre, per disciplinare il fenomeno. 
 
Per mesi, direi qualche anno, dietro alle ombre di quegli sfasciacarrozze si allinearono tutti gli orfani del 1989: sinistra europea senza bussola, terzomondisti in cerca di autore, alternativisti di ogni risma e soprattutto gli "scorciatoisti" di ogni latitudine. 
Intendo per "scorciatoisti" quella razza di pifferai e di dirigenti politici, che ancora non si erano cambiati la camicia intrisa dalle polveri del crollo del muro di Berlino, che cercavano subito una rivincita a basso costo, una scorciatoia per la storia, per ricominciare a pontificare sul senso della vita. 
 
Gli unici che avevano il diritto di sbagliare pur di osare erano i giovani, che in gran quantità, si accalcarono dietro al movimento. Dopo Seattle, venne Genova, e poi, via via, le stanche e insopportabili pantomime dei black block in varie piazze del mondo. 
Di quel movimento non c’è più traccia. 
 
L’agrario francese Bovè che guidava gli assalti ai McDonald’s oggi contratta le quote latte con la comunità europea per impedire ai prodotti del terzo mondo di entrare nel mercato europeo, e l’autonomo Casarini partecipa alle mobilitazioni per la difesa della lingua veneta con la Lega. 
Solo due esempi di un triste riflusso annunciato. 
 
Già all’inizio quel movimento era attestato sulle posizioni più reazionarie. 
Tanto è vero che quello che rimane di quell’impetuoso movimento è esattamente il contrario di quello che intendevano esprimere i no global.
 
La globalizzazione non ha imposto il potere americano, i paesi del terzo mondo non sono più emarginati di prima, il governo del mondo non è mai stato più multipolare di oggi. 
 
Ma non si tratta di fare marameo al movimento, con la soddisfazione del conservatore che dimostra che nulla cambia e nulla cambierà. 
 
Il bello è che molto è cambiato, e proprio perché quel movimento ha perduto.
Le gerarchie politico economiche oggi sono del tutto stravolte. Brasile, India, Nigeria, per non dire della Cina, rappresentano i nuovi poli delle strategie dello sviluppo.
Il regno del petrolio è sotto tiro. Alla Casa Bianca abita un presidente che probabilmente nel 99 sarebbe stato fra i manifestanti di Seattle. 
E tutto questo proprio perché la globalizzazione wireless ha investito i centri del comando e del consumo del mondo.
 
Ma quello che oggi mi pare il vero capitale è proprio il potere di controllo e di interdizione dell’individuo.
In ogni campo, dalla comunicazione alla scienza, dalla medicina alla pubblica amministrazione, le élites sono in ritirata e la marea del controllo e dell’autoproduzione sociale monta.
 
Persino Google, che pure è stato soggetto e bandiera di questo reale sommovimento rivoluzionario, oggi si trova a dover dare conto del suo potere.
Il punto è che non siamo nel migliore dei mondi possibili, c’è ancora un’infinità di buchi neri e di pericoli, ma stiamo enormemente meglio di ieri.
 
Non a caso gli spezzoni di realtà che hanno raccolto, trasformandola, la bandiera dei no global sono fenomeni come l’open sorce di massa, i social network, o comunità come Terra Madre di slow Food, che dal buon mangiare stanno riclassificando ruoli e funzioni dei territori. 
La rete è stato il veicolo di questa straordinaria trasformazione. 
Ora però bisogna dare alla rete un’anima, bisogna dargli un senso politico e culturale meno indecifrabile. Bisogna fare in modo che la rete, così come ha fatto la TV nel secolo scorso, selezioni e imponga i suoi valori. 
 
La politica deve essere frontalmente investita da questa onda lunga.
Non è più possibile che si discuta e si ragioni di rinnovamento ignorando le logiche della rete, i suoi conflitti, i suoi valori. 
Vale nel PD in Italia e nell’intera europa.
 
Cominciamo con la nostra comunità, aprendo una riflessione concreta che non riduca la rete ad un citofono di vicolo, ma le dia la potenza di una grande forma di riproduzione sociale. 
Non penso ad un omologazione politica a quello che c’è, ma alla capacità di aprire una nuova strada. 
Berlusconi con le soap opera degli anni ’80 e la valanga di spot ha dato il senso di un cambiamento ed ha vinto. 
Si può fare meglio. 
 
Diciamo come Obama, almeno.

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