Chi ha buttato giù il muro?

par Michele Mezza
mercoledì 11 novembre 2009

Nella retorica corrente e nelle parole del presidente del consiglio è la libertà che distrutto il muro. In realtà questi ultimi 20 anni ci hanno dimostrato che a bucare il muro non è stata la libertà in quanto tale, nella sua accezione idealistica, quanto uno straordinario fenomeno, una talpa che scavava da molti lustri. Quella talpa Ã¨ affiorata ed è diventato lo straordinario cigno della rete, della potenza di calcolo decentrata all’individuo, della partecipazione di massa alla produzione di segni e di sogni.

Finalmente affiora un vero contrasto culturale e ideologico. E naturalmente non viene percepito, ne dai media, tanto meno dalle controparti. Dopo 15 anni di conflitto d’interessi, stallieri di Arcore, leggi ad personam, furbizie procedurali, polemiche volgari, nomine feudali, veline, minorenni, escort, e chi più ne ha più ne metta, ora abbiamo una discussione vera su cui varrebbe la pena persino di gridare nei confronti di Berlusconi.

Celebrando a modo suo la caduta del Muro di Berlino, il Presidente del Consiglio italiano dalla Porta di Brandeburgo, forse inavvertitamente, si è lasciato andare ad un pensiero ad alta voce. Un pensiero vero, tutto suo, di quelli sui quali sarebbe lecito fondare persino un partito.

Berlusconi ha infatti detto che se non fosse caduto il muro, e la libertà non avesse spazzato via il comunismo da metà europa, nulla di quello che è venuto dopo, come ad esempio, cito le, parole testuali “internet, il progresso tecnologico e la globalizzazione” ci sarebbe stato.

A qualcuno potrebbe persino sembrare una banalità. A qualcuno altro, solo una retorica da piazza.

Invece, con l’istinto tipico di chi percepisce, anche se a volte non capisce, il senso comune da presidiare, il capo del Popolo della Libertà ha fissato un principio fondante dell’attuale cultura politica plebiscitaria e retriva, che permea oggi il nostro paese. Usando l’evento storico che ha chiuso il ‘900, Berlusconi ha voluto conficcare due paletti d’acciaio sul terreno politico nazionale ed europeo.

Il primo riguarda la contrapposizione libertà/comunismo.

Una contrapposizione che la storia si è incaricata di illustrare, senza tema di possibile smentita. Ma che proprio perché è di evidenza solare, Berlusconi tenta di plasmare a proprio uso e consumo la realtà: è stata la libertà, la domanda di libertà, l’ansia comune di libertà , a sbriciolare il muro, dice il premier.

Un’affermazione che, ineludibilmente rimanda ad una visione casareccia dell’idea di fine della storia, che lo stesso Francis Fukuyama non si stancherà mai di smentire, confutando, come fa da venti anni, la riduzione propagandista che la destra ne ha tratto. 

Una vulgata del suo ragionamento per cui con la caduta del muro veniva celebrata esclusivamente la visione mercatista dell’occidente, intesa come punto di arrivo di ogni conflitto politico. Di conseguenza quello che rimaneva fuori dall’orizzonte della libertà occidentale, come ad esempio l’oltranzismo islamico, diventava solo un problema di ordine pubblico. 

Una posizione che venti anni dopo appare assolutamente logora e inconsistente, e che Berlusconi ripesca solo a fini politici interni: se la politica oggi è solo amministrazione dell’esistente, quale spazio potrebbe mai esserci per una visione diversa dall’attuale maggioranza?

Il secondo paletto è la conseguenza del primo: se è stato il carro alato della libertà a sfondare il muro, allora è evidente che è proprio attraverso quella breccia che tutto comincia a fluire: internet, il progresso tecnologico e la globalizzazione.

Tutto questo prima non c’era, e se c’era dormiva, mentre al risuono dei colpi di maglio che sbrecciano il muro si risveglia l’indomito spirito innovatore e comincia a macinare ogni ben di Dio. E dunque, se tutto questo è arrivato dopo il muro, grazie alla sua caduta, allora vuol dire che si tratta di un semplice flusso di cose nuove che aspettava solo il semaforo verde della storia per dilagare nel mondo. Un’invasione pacifica di soluzioni e beni che non fanno altro che cantare la gloria del libero mercato, senza modificarlo o imbarazzarlo: tutto rimane come prima, con la cultura di prima, con l’economia di prima, con la televisione di prima, solo con qualche computer in più.

Il combinato disposto delle due affermazioni ci rende, finalmente, lo spessore, e non è una battuta, penso proprio che si tratti di un approccio concettuale non banale, del belusconismo. Affiora soprattutto la sua disperata voglia di prolungare, in Italia e nel mondo, gli anni ’80, la Milano da bere come suggestione di massa, il rampantismo come linguaggio sociale, il disincanto come reazione alla politica. Sopratutto del lassez faire come modello di governo: il mondo fluisce da solo, basta stare sulla cresta dell’onda. I conflitti sono in realtà solo contrasti di interessi individuali, risolvibili da negoziati, o meglio, da contratti: in fin dei conti non ci sono più le grandi discriminanti.

Tutto scorre e si annacqua: un’Eraclito di Milano 2.

Il punto è che in questo gorgo di buon senso tanto al chilo sono caduti in molti. E non solo fra quelli che hanno votato Berlusconi. Anche fra quelli che lo hanno contrastato, e ancora si dannano l’anima.

L’equivoco della libertà come unico motore della crisi comunista ha ad esempio fuorviato il dibattito all’interno della sinistra dopo l’89. La Bolognina ne fu il monumento: se è solo una questione di libertà, allora basta darsi una riverniciata, cambiare nome e indirizzo e diventare liberali.

In realtà questi ultimi 20 anni ci hanno dimostrato, lo ha ammesso con grande umiltà e dignità lo stesso Fukuyama, che a bucare il muro non è stata la libertà in quanto tale, nella sua accezione idealistica, quanto uno straordinario fenomeno, una talpa che scavava da molti lustri. 

Quella talpa è affiorata ed è diventata lo straordinario cigno della rete, della potenza di calcolo decentrata all’individuo, della partecipazione di massa alla produzione di segni e di sogni.

E’ stato il dischetto, più ancora del computer, a sbaraccare il muro, ci ha spiegato già 10 anni fa Manuel Castells nella sua straordinaria opera della Società in rete (Bocconi editore). E’ ancora Bauman, con secchezza ha mostrato come il comunismo muore quando si rinsecchisce il potere propulsivo del lavoro dipendente di massa.

E’ lì, in quel tornante che si gioca una partita epocale, dove si riconfigura una nuova gerarchia sociale, e dove si ripropongono nuove tipologie di conflitto e nuovi profili di soggetto e ceti conflittuali.

Stiamo parlando di quella gigantesca lotta per il sapere veloce, di quell’esteso conflitto per il controllo delle reti e dei territori. Di quel processo che fa dire a Bush, all’indomani dell’11 settembre, e soprattutto all’indomani di una crisi finanziaria che rende Wall Street sempre meno il cuore del sistema mondo "Gli Usa hanno due nemici: il terrorismo e la tecnologia”. Ed è sempre da lì, da quel tornante che è uscito poi Barack Obama un leader a network per il conflitto a network che si sta disegnando sul nuovo scacchiere della rete globale.

Allora se è comprensibile che Berlusconi tenti di rimettere tutto nel vaso di Pandora, e di dimostrare che nulla di nuovo è sotto il solo, che tutto nasce dal libero scambio e dunque internet vive grazie alla caduta del muro, è meno comprensibile il perché di una cecità del polo riformatore e democratico di fronte alle nuove dinamiche.

E’ stata la crisi del lavoro di massa a rendere possibile l’89 e non viceversa.

E’ stata la rete, come strumento di un processo di individualizzazione delle attività, dei consumi e delle relazioni ad innestare una nuova dinamica, che disintermedia la politica, le istituzioni e persino la grande super potenza americana.

Uno scenario dove si intravvedono più conflitti e non meno di prima: dove si affacciano soggetti che sostituiscono i grandi poli multinazionale. General Motor ha oggi un valore di mercato inferiore a Microsoft che ha sua volta sta per essere raggiunta da Google

I centri servizi prevalgono sui produttori, i providers sui content.

Possibile che tutto questo non permetta una riflessione radicalmente nuova?

La politica rimane oggi muta perché ancora non riesce ad interloquire con i nuovi soggetti.

Si potrebbe cominciare dalle cose più semplici: oggi i riformatori stanno con gli editori o con gli integratori di contenuti in rete?

Stanno con il copyright chiuso o con un modello di lef rigth aperto?

Stanno con la neutralità della rete o con le pretese delle telecom?

Stanno con la Tv generalista o con i nuovi linguaggi audiovisivi?

Stanno con le comunità locali che vogliono competere fra loro, dotandosi di centri di ricerca e abilitando standard tecnologici nuovi, o con una visione centralista che privilegia le burocrazie?

Stanno con Tremonti che vuole imporre un controllo dall’alto sul lavoro e il mezzogiorno o con un federalismo competitivo che libera risorse e creatività sul territorio?

Forse sono andato troppo lontano, ma io dietro la battuta di Berlusconi ci ho visto tutto questo. E il silenzio di tutti gli altri me lo ha confermato.

Vorrei tanto sapere se la rete ha voglia di farsi sentire.


Leggi l'articolo completo e i commenti