Agonia chiamata Alcoa. La parola passa alle tute blu

par Carla Atzeni
lunedì 23 novembre 2009

Non sembra volersi placare l’agitazione allo stabilimento Alcoa di Potovesme.

Tutto inizia il 30 ottobre, quando l’Alcoa annuncia l’intenzione di voler sospendere la produzione di alluminio se entro il 17 novembre non sarebbero arrivate novità importanti sul fronte caro-energia
 
Il 17 novembre non era un giorno come tuttu gli altri: era il giorno in cui terminava il regime speciale sulle tariffe energetiche di cui godeva l’Alcoa e a partire dal quale avrebbe dovuto continuare la produazione pagando l’energia a prezzo pieno.
 
Era il 18 novembre quando il presidente Cappellacci, governatore della regione Sardegna, annunciava dopo un incontro con il ministro Scajola, che la fabbrica non avrebbe chiuso.
 
La soluzione “tappa buchi” trovata era una riduzione di circa 200 milioni di euro per la procedura d’infrazione che la Commissione Europea ha aperto nei confronti dell’Italia, per le agevolazioni concesse per l’abbattimento delle tariffe energetiche. 
Il governo italiano, che annunciava l’intenzione di fare ricorso insieme all’azienda, ha prorogato il termine delle tariffe energetiche agevolate sino al 31 dicembre 2009, permettendo all’azienda di continuare la produzione e concedendole un altro mese per riuscire a trovare una soluzione alternativa all’abbattimento dei costi dell’energia e per il pagamento delle somme dovute.
 
Per il ministro Scajola l’unica soluzione definitiva possibile è l’avvio del nucleare, giudicata giustamente inadeguata visti i lunghi tempi, da Roberto Strallu (UIL).
 
Gli operai ritornano cosi a lavorare, ma passano solo pochi giorni che arriva dai vertici Alcoa l’ennesima stangata: “Chiudiamo gli stabilimenti italiani!”.
 
La decisione di sospendere la produzione è dovuta alle “incertezze sulla fornitura di elettricità per i suoi forni di fusione a tariffe competitive e per l’impatto finanziario della decisione della Commissione Europea” (comunicato Alcoa). Immediata la chiusura dello stabilimento di Fusina, mentre per quello di Portovesme si parla di fine 2010.
 
Ma gli operai non ci stanno, e dopo esser stati protagonisti della manifestazione romana di mercoledì 18 novembre, in cui sono stati presi a manganellate dalla polizia forse spaventata dalle grida in limba sarda, tornano in prima linea.
 
Venerdì 20 gli operai occupano la fabbrica di Portovesme e dopo aver annunciato, attraverso un video, il sequestro dei dirigenti (successivamente smentito), con una ruspa bloccano l’ingresso principale: dallo stabilimento non deve uscire neanche un grammo di alluminio.
 
 
Quindi si recano tutti in sala assemblea, dove invitano i dirigenti a raggiungerli: cassa integrazione e chiusura sono i temi principali degli interventi degli operai, che preoccupati per il futuro chiedono un po’ di chiarezza dopo le contradditorie dichiarazioni dell’azienda. 
 
Nel frattempo i sindacalisti avvertono “Che nessuno si sogni di spegnere le celle elettrolitiche! La produzione non si deve fermare. Dobbiamo tenere la fabbrica in marcia”.
 
La situazione si placa in serata ma l’occupazione dello stabilimento continua.
 
L’ultima azione forte degli operai è di stanotte: un blitz di un centinaio di lavoratori alla centrale dell’Enel. Scopo dell’azione: bloccare i cancelli della centrale e impedire il rifornimenento di carbone. “Niente alluminio, niente carbone” è il nuovo motto degli operai decisi a continuare la protesta: la chiusura dello stabilimento porterebbe alla deriva più di 2000 famiglie del Sulcis, i cui redditi dipendono, direttamente o indirettamente dall’Alcoa, e questo da agli operai la forza di continuare nelle loro manifestazioni nonostante i rischi che corrono e i seri problemi che stanno causando all’azienda, impossibilitata a rifornire i suoi clienti a causa del blocco dell’alluminio in uscita.
 
Intanto i lavoratori, insieme a sindaci e organizzazioni sindacali, organizzano la prossima manifestazione che si terrà a Roma il prossimo giovedì, sperando che almeno questa volta il consiglio regionale e il presidente Cappellacci vogliano unirsi alla rivendicazione.

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