Walter Benjamin e la riproducibilità all’epoca della social tv

par Web Design e Culture Digitali
sabato 19 gennaio 2013

Una recente ricerca ha misurato che l'86% dei possessori di smartphone continua ad utilizzare il proprio cellulare (o altro device capace di navigare in rete) durante la visione di programmi televisivi. Tutto questo mentre torna nelle librerie il classico di Walter Benjamin "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" (1935).

Funziona così: con una mano si accende il televisore, con l’altra si manovra lo smartphone puntandolo sulla propria bacheca online. Una recente ricerca congiunta Nielsen-Yahoo ha misurato che l'86% dei possessori di smartphone continua ad utilizzare il proprio cellulare (o altro device capace di navigare in rete) durante la visione di programmi televisivi.

Numerose altre ricerche (condotte di solito su campioni di giovani nativi digitali) confermano che la maggioranza di coloro che utilizza quotidianamente smartphone o pc continua a navigare in rete per comunicare sui social network mentre sta guardando la televisione. Il “secondo schermo” (ovvero il monitor del device addizionale che affianca il televisore) consente allo spettatore di arricchire la sua esperienza audiovisiva vivendo contemporaneamente anche il tam tam sui social media. Questo è la social tv: interazione sociale via web durante la fruizione di un oggetto audiovisivo. Dopo la diffusione degli effetti speciali digitali e l’esplosione dell’home video, ecco una nuova svolta industriale nella storia della comunicazione audiovisiva: il cyberspazio conversazionale si espande orizzontalmente inglobando la televisione e il cinema.

Per ora la social tv è praticata perlopiù tramite device portatili come gli smartphone (magari connessi al web attraverso il wi-fi di casa) ma siamo ormai in procinto di salutare la diffusione di massa delle moderne smart tv le cui applicazioni consentiranno una sovrapposizione più diretta dei messaggi di amici e parenti direttamente sullo schermo televisivo. La tendenza oramai inarrestabile, è quella di sovrapporre i piani della visione in una miscela di suoni, testi, immagini in movimento e interazioni sociali fulminee.

Tutto questo mentre torna nelle librerie il classico di Walter Benjamin L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (scritto nel 1935 e più volte rimaneggiato) in una versione filologica, corredata di note e varianti, a cura di Francesco Valagussa. Fu proprio Benjamin, con L'opera d'arte…, uno dei primi testimoni intellettuali della svolta industriale dell’immaginario collettivo. All’epoca, film e trasmissioni radio prendevano il posto di quadri e sculture come riferimenti per l’immaginazione collettiva. All’inizio del ‘900 si fanno largo nuove muse quali cinema, fotografia, discografia, tutte modalità espressive inequivocabilmente legate a dispositivi tecnologici sia in fase di produzione che in fase di fruizione. Condizionato forse dalle urgenze dell’antinazismo, durante la conferenza L'autore come produttore Benjamin si interroga sul ruolo sempre più centrale della tecnologia (stampa, radio, fotografia, cinema) nell’ambito della trasmissione culturale. Tutte le opere d’arte, sotto qualunque forma, si presentano come merci derivanti da un processo di produzione profondamente intriso della dimensione sociale propria della società che le produce. I mass media in quanto dispositivi tecnologici, apparivano all’epoca come un formidabile mezzo di propaganda ideologica e quindi di flusso monodirezionale della trasmissione culturale. Ma già quel particolare sistema mediatico sotto gli occhi di Benjamin lasciava intravedere qualcosa di più complesso: una erosione sistematica della separazione culturale tra autore e pubblico dovuta alla natura stessa del dispositivo tecnologico di mediazione.

La pratica della social tv giunge all’apice di questo processo di erosione, nel momento in cui il www amplifica vertiginosamente la tendenza alla fluidità sociale dei modelli di consumo culturale. Il risultato è che oggi sono notevolmente ridimensionati quei sistemi di mediazione accademico-museali ancora vivi e vegeti all’epoca di Benjamin. Per Benjamin, prima della riproducibilità tecnica il fatto artistico (o meglio, il consenso che si condensa intorno ad un manufatto conferendogli lo status di opera d’arte) era determinato da un alone quasi mistico che si sovrapponeva all’opera. Quella che Benjamin chiama “aura” spiegandola con un’analogia riguardante la percezione di oggetti naturali. L’aura di «un pomeriggio d'estate, di una catena di monti all'orizzonte, di un ramo che getta la sua ombra sopra colui che si riposa» è l'hic et nunc, la durata unica ed irripetibile del momento vissuto nel luogo in cui avviene la percezione. Prima del cinema e della fotografia, i concetti di unicità, di durata, di estasi propri dell’hic et nunc costituivano una parte importante della fruizione e dello studio dell'opera d'arte. Con l'epoca della standardizzazione e della riproducibilità tecnica cambia tutto e Benjamin individua nel cinema «l'agente più potente» di questi rivolgimenti. Dal momento in cui è divenuto possibile riprodurre - o, più precisamente, da quando l'oggetto artistico è pensato in funzione di questa riproducibilità - si ha inevitabilmente una svalutazione dell'aura pre-moderna.

Viviamo in un mondo in cui le comunicazioni elettroniche hanno reso possibile una disponibilità inedita di manufatti culturali provenienti da tutte le epoche. Siamo in un’epoca in cui le aziende hi-tech spingono verso la convergenza digitale infilando ovunque piccoli computer e connessioni web. Inoltre lo spettatore medio non ha più i tradizionali riferimenti di mediazione culturale e sembra orientarsi verso una scelta sempre più libera. L’istituto della critica sembra svuotato di qualsiasi significato.

Oggi il tam tam social consente allo spettatore di aumentare la qualità dell’esperienza grazie ad un confronto dialettico quotidiano. L’esplorazione di particolari nodi dell’immaginario collettivo diventa sempre più significativa e avvolgente. Nessuno si preoccupa di quanto possano sembrare sguaiati o frivoli i propri gusti perché il gruppo d’ascolto di cui si è parte comprende quasi esclusivamente presenze amiche, non ci sono maestri severi o genitori castranti. Anzi molto spesso Twitter e Facebook diventano un vero e proprio forum per il narcisismo moderno dove ci si diverte a rendere monumentali le proprie idiosincrasie. Riaffiorano in forme nuove e sempre più disinibite le incontenibili urgenze tipiche dell’individuo immerso nella società di massa. Le tracce digitali concedono a chiunque facili attestati di identità: basta strillare opinioni, sfoggiare insofferenze, sbandierare scelte di consumo più o meno anticonformiste. Nello stesso tempo, accanto al narcisismo, riaffiora l’eterno topos antropologico del bisogno di sentirsi parte di un gruppo. Del resto sono questi i binari su cui ha viaggiato per decenni lo sviluppo della società dello spettacolo e quel complesso sistema di segni interconnessi costruito intorno all’uomo-massa. Nonostante la frammentazione continuiamo a chiamare tutto ciò immaginario collettivo.

L’industria dei consumi culturali e la rete delle reti traggono linfa vitale l’una dall’altra e i loro destini sembrano irresistibilmente attratti in questo abbraccio chiamato social tv. La possibilità di lanciare commenti dissacranti e sbeffeggianti, la voglia di mettere in discussione il pensiero di un vip affrontandolo direttamente, l'opportunità di fare queste cose ovunque e nel momento stesso in cui vengono pensate: ecco gli ingredienti irresistibili del successo della social tv come modello di consumo.

Twitter è il servizio di social networking online che più efficacemente ha intercettato la voglia di social tv. La flessibilità dei suoi ritmi veloci (messaggi di massimo 140 caratteri affettuosamente detti cinguettii) rendono il sito dei canarini azzurri il network ideale per una fruizione in mobilità, pronta a disciogliersi nella quotidianità. La rete che accompagna ogni nostro respiro. La possibilità di inserire rimandi e connessioni ad altre pagine web garantisce la possibilità di manifestare il proprio pensiero scegliendo il livello di approfondimento a seconda delle circostanze. La trovata degli hashtag e quella delle menzioni dirette stimola poi le connessioni interne al network, coadiuvando la formazione di gruppi di discussione. Quelle magiche stringhe di testo precedute dal simbolo del cancelletto sono come abracadabra che evocano argomenti di discussione o, sempre più spesso, trasmissioni audiovisive del passato o del presente. Gli hashtag assicurano che il messaggio giunga al gruppo giusto infilandosi in una specifica discussione seguita da una comunità virtuale che non ha leader e che si riunisce senza darsi appuntamento. La formula di Twitter è dunque molto semplice: brevità dei messaggi, vastità dell'utenza attiva, curiosità per le esternazioni di personaggi celebri. L'animazione perpetua è garantita soprattutto dal dinamismo dei cip-cip intorno ad eventi o persone famose.

Il pensiero di Walter Benjamin ci dice che le espressioni artistiche più tradizionali, originate in epoche pre-industriali, restano legate a concetti di unicità, irripetibilità, genio misterioso insito nell’atto creativo. Benjamin constata anche che le nuove arti sono geneticamente votate alla serialità industriale. Non esiste il concetto di esemplare originale di un film ad esempio. Oggi la mole di utenti che si aggregano per commentare prodotti dell’industria culturale su Twitter è tale da dimostrare da una parte la moltiplicazione infinita delle possibilità di fruizione, dall’altra l’infinita varietà dei punti di vista su uno stesso oggetto. Folle oceaniche di avatar cinguettanti assicurano una costante animazione delle pratiche di live tweeting e dei dibattiti intorno a moltissimi hashtag e quindi moltissimi interessi. Queste comunità virtuali spontanee hanno preso il posto degli apparati di mediazione culturale di cui Benjamin cominciava a presagire l’estinzione.

Forse per il tono giudicato troppo militante rispetto ad altri suoi scritti, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica venne frainteso da molti intellettuali della prima metà del secolo scorso che lo valutarono come una apologia dell'Arte tecnicizzata di massa. Nella nuova edizione, il saggio di Benjamin è accompagnato da uno scritto di Massimo Cacciari (Produttore malinconico) che ne sottolinea la (sofferta) lucidità analitica di fronte alla crisi dell’arte in quanto tale nell’epoca moderna. Per Cacciari ne L'opera… non c’è nessun facile ottimismo positivista, né alcuna rassegnazione passiva alla comparsa delle macchine nei processi comunicativi.

Nel constatare e definire il processo di perdita dell’aura, Benjamin è stato tra i primi intellettuali a sancire l'equiparazione della creazione artistica alla produzione di una merce. Ma senza drammatizzare: in Benjamin come in quasi tutti gli studiosi che hanno continuato nella sua scia l'analisi dell'industria dei consumi estetici, gli ineluttabili effetti del progresso tecnologico non sono mai associati automaticamente ad una perdita di qualità, ma piuttosto ad una progressiva desacralizzazione che favorisce un'esperienza laica dell'arte e della cultura in generale. Quegli strati di mediazione culturale para-religiosa che si frapponevano tra il fruitore e l’opera non hanno più alcun senso. Rispetto ai tempi di Benjamin, oggi risulta ancora più evidente la perdita di quel carisma che aveva un'opera d’arte non riproducibile liberamente. La libertà espressiva di cui gode oggi il cittadino del web nel commentare un qualsiasi prodotto culturale nel momento stesso in cui lo fruisce è proprio la piena realizzazione di questo processo di laicizzazione della cultura.

Oggi il ruolo dell’audience sfugge agli schemi tradizionali: non più terminale passivo di un atto creativo originato in un altrove lontanissimo, non più gruppo di individui soli davanti al monolite televisivo o radiofonico. Il pubblico, grazie alla flessibilità dei modelli di consumo odierni, è ormai il nodo più attivo dell’immaginario collettivo e si organizza in gruppi con una aumentata consapevolezza della natura sociale delle sue scelte. Il cinguettio social dello spettatore messo in rete diventa esso stesso canale distributivo e forma di marketing (a volte involontario). Grazie alla natura pervasiva delle tecnologie comunicative la mobilitazione è quasi automatica, quasi richiesta nel momento stesso in cui si accende una fruizione. L’uomo-massa proiettato su una rete in cui tutti i punti sono sempre collegati è portato ad esprimersi su qualsiasi cosa, a rendersi utile condividendo la propria esperienza con la platea dei suoi pari più vicini.

Commenti, opinioni, giudizi, pensieri anche non pertinenti, ricordi, voli dell’immaginazione che un tempo rimanevano confinati al chiuso della mente individuale ora si espandono verso l’esterno, si allacciano in diretta alla trasmissione del momento (film e telefilm in primis ma anche reality, talkshow e programmi di informazione) e si intrecciano con i pensieri di centinaia di altre persone (anche sconosciute) che in quel momento stanno guardando quella stessa trasmissione. La visione di un film non è più solo un momento di godimento o di agnizione, tende ad essere qualcosa di meno estatico e passivo. Così intorno ad un prodotto estetico si condensa una inedita forma di valore aggiunto che finisce con lo spettacolarizzare la visione.

Recentemente lo showman italiano Fiorello, lanciando una trasmissione di successo battezzandola con un nome che è anche un hashtag (#ilpiugrandespettacolodopoilweekend) è stato forse il primo a sdoganare presso le grandi masse italiche Twitter e la pratica del watch and tweet, solleticando la voglia di dialogare direttamente con i vip (fantasia intrinseca nel telespettatore sin dai tempi della nascita del gossip e dello star system hollywoodiano). Nell’azione del vip siciliano, osserviamo non solo vivaci mosse di web marketing, ma anche una originale sperimentazione comica tramite il cinguettio digitale. Con Twitter, Fiorello prova "in diretta" il suo modo di fare spettacolo. In definitiva il web assottiglia non solo le barriere tra produttore e consumatore, ma anche il recinto fisico dello spettacolo, disciogliendo performance e backstage in un unico flusso quasi indifferenziato. Un richiamo irresistibile per il pubblico. Guardare e chattare sfruttando protesi digitali è una modalità espressiva che, sempre più spesso e sempre più platealmente, viene incorporata nel prodotto estetico grazie a quel tessuto connettivo che è internet. Non più solo artefatti culturali e prodotti della creatività umana: la comunicazione orizzontale stimolata da internet e dai social media arriva a stravolgere e modificare il modo stesso di concepire uno spettacolo.

Come costole dei social network storici, cominciano a fiorire web company come GetGlue, Miso e Orange (in Francia) che hanno legato le loro fortune al concetto di check-in dell'utente all'interno di nodi specifici dell'immaginario audiovisivo tra film, telefilm e trasmissioni televisive.

Con il tweeting in diretta il «qui e ora» nell’accezione quasi magica che Benjamin assegnava all’aura dell’opera d’arte diventa una articolazione puramente sociale. In fondo, con l'avvento dell'industria culturale e dell'immaginario collettivo il valore rituale e l’effetto estetizzante delle modalità di fruizione sono sopravvissuti ma svuotati di qualsiasi accezione sacrale. Una particolare sessione di chat, uno specifico gruppo di amici che discutono, un determinato momento condizionato da un certo stato d’animo: sono tutte variabili che costituiscono un «qui e ora» della fruizione unico e irripetibile.

Per quasi tutto il '900 la radio prima e la tv dopo hanno ricoperto il ruolo di nuovo focolare domestico. La progressiva espansione dell'offerta di contenuti da una parte e di nuovi mezzi di fruizione dall'altra, ha portato ad una progressiva erosione della funzione aggregante ricoperta dalla tele-visione in famiglia o in gruppo. Ma ora l’evento televisivo totalizzante che sembrava in via di estinzione, potrebbe tornare sotto altre forme. L'era di internet cambia tutto e la rete delle reti, intrinsecamente legata al concetto di condivisione, rimescola bruscamente le carte tanto faticosamente disposte dagli apparati produttivi. Gli ultimi 100-150 anni hanno radicalmente trasformato l’idea di opera d’arte: non più solo una esperienze emotiva ma anche aggregativa (finisce il secolo del cinema) e ora interattiva (entriamo nel secolo di internet). Oggi l’apparato degli studios audiovisivi deve esplorare il nuovo confine e predisporsi al raccoglimento delle nuove aspettative. All’industria l’onere non solo di produrre la nuova tela, ma anche quello di interpretare i segni che vengono abbozzati su tale tela e, possibilmente, dirigerne il traffico.

Nell’analisi di Benjamin la soggettività dell’artista perde il ruolo centrale nel processo di produzione di manufatti estetici. Parallelamente il tessuto culturale diventa più complesso e cresce l’importanza delle modalità tecniche tramite le quali il produttore entra in collegamento con il suo pubblico. Il sistema mediatico ed i processi di produzione della cultura hanno dunque sempre meno la forma di una fabbrica di epoca industriale con capitalisti, forza lavoro ed un pubblico al quale vendere la merce. La produzione culturale assomiglia molto di più ad un rumoroso mercato con la sua confusione e i suoi sottili traffici sottobanco. Per Cacciari lo sguardo di Benjamin sull’evoluzione dell’arte «incorpora la creatività nell'apparato tecnico-produttivo del mondo contemporaneo» e spodesta la fabbrica dal centro dell’industria culturale tant’è che all’«autore come produttore è ormai subentrato da tempo l'artista come mercante».

Nel mercato del gusto estetico «ancor prima che merci, quel che va prodotto è il loro consumo» e per assicurare la sopravvivenza a questo organismo esistono i ritmi scanditi dalla moda, “l’eterno ritorno del nuovo” come scriveva Benjamin. Oggi che viviamo gli anni più infuocati dell’elettronica di consumo appare evidente la confusione tra il concetto di moda come fatto estetico e l’eccitazione che rianima l’economia planetaria ad ogni nuova svolta tecnologica. I gadget tecnologici sempre più sofisticati sfornati di anno in anno trovano un mercato grazie a nuovi bisogni di fruizione di contenuti culturali ed estetici. È sempre più evidente che i grandi produttori di merci estetiche destinate all’intrattenimento di massa non sono in grado di sopravvivere senza internet e senza quel magmatico e incalzante sviluppo di tecnologie per la fruizione sempre nuove al quale ci hanno abituato i grandi marchi hi-tech quali Apple, Microsoft, Sony, ecc. Il ruolo preminente che la Apple ha recentemente conquistato nell’industria discografica con il suo sistema di commercializzazione della musica dimostra come la tecnologia sia diventata il principale strato di mediazione tra produttore e consumatore di oggetti culturali.

La spasmodica attenzione al dispositivo conferma una linea evolutiva che dagli anni ’30 di Benjamin ad oggi sopravvive in espressioni artistiche che ricordano il futurismo fascista in quanto a estetizzazione cieca della macchina elevata al rango di nuova bellezza. Un atteggiamento che oggi sembra disciogliersi in senso post-politico perdendo le pretese ideologiche di una qualsiasi propaganda e confondendosi nel grande mare delle vibrazioni intellettuali che esaltano acriticamente ogni pseudonovità tecnologica.

Da tempo l'industria dello spettacolo ha intuito pericoli e opportunità di queste nuove tendenze e si sta lentamente adattando all’idea di non essere più il centro di comando unico: ora ci sono, allo stesso livello, da una parte le imprese hi-tech e dall’altra la voce dei consumatori digitali. Ma forse è solo grazie al pungolo della gente comune e dei grandi player del web e della tecnologia che i grandi studios hollywoodiani sono riusciti a sopravvivere alla fine del secolo del cinema e all’alba di internet. La gente vuole ancora narrativa audiovisiva ma (complice l’hi-tech) la vuole secondo tempi, modi, quantità che non possono essere più pianificati dall’alto.

Ma come riuscire ad organizzare il consenso popolare o, perlomeno capire cosa vuole la gente oggi? Proprio il web nella sua declinazione “social” è la risposta. La parola passa così alle web company e ai reparti marketing degli studios stessi. Il mantra comune si chiama engagement. Intercettare le abitudini degli spettatori per catalizzare un coinvolgimento totale è un fatto essenziale per garantire la riproduzione virale dei messaggi pubblicitari legati ai prodotti artistici. Il mercante d'arte o meglio il mercante di contenuti mediali (visto che l'arte è morta) di cui parlavamo non è più solo: dispone ora di nuovi strumenti che sembrano magia e quasi danno l’idea di poter leggere il pensiero del pubblico. Il futuro degli studios passa per le alchimie matematiche del marketing. L’infinito verso cui tendeva l'aura descritta da Benjamin lascia posto alla misurabilità delle tracce digitali. Il posizionamento di un prodotto estetico nell’agorà digitale viene vagliato dall’elaborazione statistica. In effetti oggi esistono molte aziende che si occupano di comunicazione digitale specializzandosi proprio nella vendita e nella messa a punto di servizi di misurazione della disposizione emotiva del pubblico tramite il web.

In alcuni casi le emittenti televisive più attente al mutamento si fanno contaminare dal live tweeting al punto da introdursi nelle conversazioni lasciando interagire i protagonisti stessi (gli attori oppure ghost-writer appositamente assoldati) con il pubblico. I tradizionali modelli di interlocuzione uno a molti sopravvivono dunque ma sono svecchiati dalla vitalità intrinseca dei social network all’interno dei quali il tam tam pubblicitario può diventare un fatto virale non più controllabile dal punto di origine. Insomma accanto agli schemi tradizionali di comunicazione cominciano ad affermarsi con sempre maggiore insistenza modelli molti a molti, in cui il ruolo dei produttori-mercanti dei contenuti appare sfumato.

Cacciari sottolinea l’attualità del testo di Benjamin anche in relazione alla conferma della profezia sulla “morte dell’arte” elaborata da Hegel. La mercificazione del gesto artistico favorita dallo sviluppo delle tecnologie della comunicazione ha stimolato il fiorire di estetiche dell’indifferenza, di sguardi sempre più cinici gettati sul gioco dell’assoluta interscambiabilità fra visioni e merci che si equivalgono nel mercato dell’arte nell’epoca della riproducibilità. La creatività contemporanea, così disincantata e, almeno apparentemente, democratizzata ha forse definitivamente scalzato ogni pretesa soggettività artistica sostituendola con la comicità. Nella profezia di Hegel si esprimeva l'idea di un'arte sempre meno istintiva, più concettuale, critica, ironica. Del resto commentare i media tradizionali, quasi sempre in senso dispregiativo, utilizzando i nuovi media è uno sport ormai affermato.

Probabilmente qualsiasi rilievo sul mood dei cinguettii confermerebbe la morte già decretata da Walter Benjamin di qualsiasi sacralità della produzione artistica. Ne resta solo una vaga eco in quel gioco di ruoli sempre tendente al comico che trapela dai cinguettii della star che non può esimersi dallo scendere al livello dell’uomo-massa e lasciarsi sfottere un po'. L’uomo comune si intrattiene e, nel frattempo, lo star system prende appunti.


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