"Violence All Around Me": Carol Joyce Oates in Italia

par Alessandro De Caro
martedì 6 luglio 2010

Una delle più grandi scrittrici americane riceve, nel nostro Paese, il premio Fernanda Pivano 2010. Non è la prima volta che Carol Joyce Oates vince dei premi meritati (National Book Award, Pen/Malamud Award for Achievement in Short Story, Prix Femina) per un’opera letteraria che non cessa di stupire, sia per la qualità della scrittura che per la sua prolifica curva ascendente... Che sia già un classico? 

Nell’ambito del programma della Milanesiana 2010, noto festival della letteratura e delle arti, la scrittrice Carol Joyce Oates riceverà giovedì sera, presso il Teatro Dal Verme (Milano), il premio Fernanda Pivano 2010. Sarà uno dei tanti premi della sua brillante carriera, iniziata nel lontano ’64, che la vede autrice di un’opera a dir poco prolifica tra romanzi, saggi, testi teatrali, racconti (soltanto questi ultimi sono circa 700, pubblicati su riviste e poi raccolti in volume).


 
In effetti, la sua energia e il suo impegno hanno qualcosa di leggendario, come ricorda anche il critico letterario Greg Johnson, autore di un’importante biografia di Oates (Invisible Writer). Ma l’aspetto più significativo non è, naturalmente, quello della prolificità in sé quanto dell’intensità dello stile, della passione per la complessità psicologica dei personaggi, oltre all’interesse tutt’altro che superficiale per la storia degli Stati Uniti e per gli aspetti più bizzarri o inquietanti dell’essere umano. Non c’è un romanzo scritto da Oates che non sia in grado di scuoterci, di mettere a nudo qualcosa di quella gabbia jamesiana che si potrebbe chiamare la “struttura del comportamento”, uno schema- spesso omicida o autodistruttivo- che domina la nostra vita anche quando siamo certi di esserne i padroni.
 
Il lettore potrà ricordare, tra i molti titoli della sua produzione, la vicenda drammatica di Kelly in Acqua nera (1992), di Gillian in Bestie (2002) o di Ariah, “la sposa vedova” de Le cascate (2004), e tante altre eroine che popolano pagine cariche di osservazioni pungenti, sottointesi e trame collaterali che difficilmente cessano di affascinare. Quella di Carol Joyce Oates è un’arte del racconto che, pur potendo essere ricondotta a presunti “modelli” (John Barth, Henry James, il Gotico contemporaneo), ci sembra fare resistenza a qualsiasi “etichetta” poiché lo stile e la potenza della visione- la Oates prima dedicarsi alla scrittura è stata, per un certo periodo, anche pittrice- lavorano al di sotto di qualsiasi letteratura di genere. Nel suo caso, il termine etichetta andrebbe considerato nel suo duplice senso: anche nel tessere le sue trame, Oates non smette di lavorare attorno a certe piaghe della società americana- e non solo- come la dipendenza dal pensiero religioso e dalle convenzioni sociali, la distinzione convenzionale tra maschile e femminile, la mentalità autolesionista che, spesso, va così d’accordo con le istituzioni e i rappresentanti del conformismo.
 
Per un bizzarro fato editoriale, però, da noi la Oates è stata fino adesso poco tradotta, specialmente per quanto riguarda la sua copiosa produzione saggistica (una parte importante del suo lavoro, anche considerando che ha sempre accompagnato la scrittura all’insegnamento presso l’università di Princeton). Non escluderei che uno dei motivi sia il suo presunto “femminismo”. Come tutte le etichette, anche quest’ultima nuoce al lavoro artistico, di grande impatto e coerenza stilistica, di Oates. E’ vero che i personaggi principali dei suoi romanzi sono molto spesso delle donne, ed è anche vero che i suoi giudizi sui personaggi maschili non sono mai privi di una certe verve dissacratoria, ma quale artista non ha mai preso di mira quella sbiadita icona che è il Padre? Che sia un insegnante ipocrita (Bestie), un politico in vista e la sua amante-vittima (Acqua nera) o un’intera famiglia (Le cascate), ciò che emerge, ogni volta, non è altro che la rapacità umana, la stoltezza, l’egoismo. Contro la violenza che non ha nome, l’unico segnale di una vita diversa può essere dato da una fragilità che si trasforma in potenza, una debolezza che scopre come sopravvivere nonostante tutto. Quando un lettore si accosta per la prima volta ad un’opera di Oates, non può che condividere ciò che la stessa autrice ha dichiarato anni fa: “We work in the dark - we do what we can - we give what we have. Our doubt is our passion, and our passion is our task. The rest is the madness of art”.


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