Videocracy: l’Italia di Berlusconi trent’anni dopo

par Elia Banelli
lunedì 7 settembre 2009

 

Tutto ebbe inizio in uno sconosciuto bar della Brianza, dove un anchorman baffuto propina un telequiz agli spettatori collegati telefonicamente da casa e per ogni risposta esatta una casalinga dal fisico flaccido e con una mascherina stile eyes wide shut, si leva un indumento. Lo spogliarello delizia gli operai della zona, incollati allo schermo fino a tarda notte per arrivare in fabbrica visibilmente provati.

E’ il primo atto che sancisce la nascita della tv commerciale e l’era del berlusconismo, che dura ormai da trent’anni, con strascichi evidenti nella mentalità degli italiani.

Questo è Videocracy, il documentario del regista svedese Erik Gandini che svela con molta semplicità lo stato comatoso di un paese plasmato a sua immagine e somiglianza dal “presidente” (così citato nel film). 

In tutto questo Berlusconi non è che la punta dell’iceberg, il simbolo di una società malata, afflitta dal trionfo dell’etica del velinismo, del voyerismo coatto, dell’arricchimento senza scrupoli e al di là di ogni minima regola morale e civile.

Sono tutte cose che sappiamo, discorsi ripetuti spesso nei dibattiti pubblici (non abbastanza sui canali del duopolio Rai-Mediaset). Per il pubblico italiano (per quelli con una consapevolezza critica) il documentario Videocracy non offre nulla di nuovo, tranne alcuni particolari succosi sui quali vale la pena soffermarsi.

La bellissima villa di Lele Mora in Costa Smeralda, affollata di giovani tronisti e fuoriusciti del Grande Fratello, l’immagine candida della camera da letto completamente bianca, come i vestiti del protagonista, che stridono con l’anima nera del Lele Mora orgoglioso del suo essere mussoliniano, che inebriante sfoggia davanti la telecamera il palmare con le suoneria del fascio mixate ad immagini del Ventennio.

Lui, figlio mediatico di Berlusconi, alla cui amicizia deve tutto: la scalata al potere, il ruolo di massimo agente dello spettacolo, il deus ex macchina che decide chi può diventare ricco e famoso e chi è destinato ad una vita anonima e da sconosciuto, cioè normale.

Come quella del giovane “sfigato”, che vive con la madre anziana che si lamenta perchè a 26 anni non gli ha mai portato una ragazza e lo pedina al ristorante quando sa di una cena “galante”. Lui che lavora da operaio (e non essere disoccupato è già un vantaggio) ma sogna di sfondare nel mondo della televisione, proponendosi come l’erede di Van Damme che scimmiotta Ricky Martin a suon di arti marziali.

La sua immagine ne esce ridicola, patetica. Ma il suo sogno è quello e vi dedica ogni sforzo quotidiano. Tra una comparsata e l’altra come spettatore in vari talk-show televisivi avrà finalmente il suo quarto d’ora di gloria durante X-Factor, davanti a Morgan e la Ventura, presentato dal figlio di Facchinetti come “il tarantolato”.

Perché l’obiettivo di una vita è “essere famosi, ricchi ed avere così tante ragazze”.

Tre caratteristiche che di certo non mancano a Fabrizio Corona, altro protagonista del documentario. Figlio mediatico di Lele Mora e per riflesso eternamente grato a Silvio Berlusconi, che ripetiamo, non è un uomo dello spettacolo ma il nostro presidente del consiglio.

In pochi minuti Gardini ci rinfresca la memoria: Corona rinchiuso in carcere ottanta giorni per l’inchiesta del pm di Potenza Woodcock su Vallettopoli. Degno erede del berlusconismo, dopo aver scontato la custodia cautelare con la grave accusa di “estorsione”, ha subito attaccato lo stato e la magistratura, sapendo che in Italia in questo modo avrebbe triplicato i guadagni e la sua immagine ne sarebbe uscita rafforzata.

Infatti la galera gli permette di rilanciare un merchandising di tutto rispetto: magliette, scarpe, profumi e di guadagnare tanti soldi: un utile di quasi due milioni e mezzo, simboleggiati mentre conta sul letto decine di banconote da 100 e 500 euro.

Corona poi racconta che riceve dieci mila euro per ogni comparsata in discoteca, dove si concede un’oretta per qualche foto e dice “quattro minchiate”, come lui stesso ammette.

Videocracy non fa mancare una perla del suo discorso: “tutte le leggi italiane andrebbero cambiate… l’unico motivo per fare il politico è che puoi avere l’immunità parlamentare e fare quello che vuoi… bisogna avere il potere e fare quello che cazzo ci pare”.

E’ la saggia premessa per una futura discesa in campo. Il Quirinale è prenotato in anticipo. Ma l’immagine triste e malata che offre l’Italia al regista svedese, e che sarà quindi diffusa in tutto il mondo, non è tanto rappresentata dal Berlusconi in sé con bandana al seguito, né dal Lele Mora tutto bianco e fascista, dal Briatore pieno di gnocche o dal Corona depilato ripreso nudo sotto la doccia (a stare in mutande non è proprio abituato).

La vera “colpa”, se così si può chiamare, non è solo di coloro che hanno creato il sistema che ha lobotomizzato la maggioranza degli italiani, e di chi l’ha cavalcato ottenendone successo e denaro, ma la responsabilità è di tutti noi, della “base” che ha accolto e permesso che questa degenerazione si affermasse sempre più come sistema di valori da imitare.

Del ragazzo che sogna di sfondare in tv, delle ragazzine trepidanti che si esibiscono in pubbliche piazze, ballando per una carriera a suon di stacchetti muti di 30 secondi, di donne e signore che sbavano per una diapositiva con Fabrizio Corona e che di traverso votano e sostengono la politica di Silvio Berlusconi.

Senza la massa che crea il consenso, questi nuovi “mostri”, citando Oliviero Beha, non esisterebbero. Sarebbero fantasmi sconosciuti. Invece vivono e prosperano, fanno tendenza ed offrono un modello da seguire. Siamo pur sempre il Paese parzialmente libero, al 73 posto per la qualità dell’informazione, dove quasi nessuno compra i giornali o legge i libri, ma si informa per l’80% attraverso la tv. I padroni di questo rincoglionimento di massa ne sono pienamente consapevoli, tanto da impedire su Rai e Mediaset la messa in onda anche solo del trailer di un documentario che potrebbe lievemente scalfire il velo di maya che ottura la vista degli italiani, grazie al quale hanno costruito laute carriere e gestiscono soldi e potere. 


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