Veronica Panarello, colpevole fino a prova contraria

par Patrizia Ciava
lunedì 5 gennaio 2015

Se gli indizi a carico di Veronica Panarello sono davvero solo quelli riportati dai media si può affermare con un sufficiente margine di certezza che è innocente. Ma come farà a dimostrarlo? Sembra un paradosso ma, purtroppo, non lo è. L’onere della prova spetterebbe all’accusa ma da tempo ormai si va sempre più consolidando una prassi processuale in cui è l’imputato a dover smontare impianti accusatori traballanti e incoerenti per dimostrare la propria innocenza.

Non fa eccezione il caso della morte del piccolo Loris Stival. La ricostruzione del delitto elaborata dagli inquirenti, e riportata dalla stampa, appare inverosimile: una madre sana di mente, che si è sempre dimostrata amorevole e attenta nei confronti dei figli, un bel giorno si alza e, di punto in bianco, decide di ucciderne uno, non si sa bene perché.

Secondo gli inquirenti infatti, la donna avrebbe premeditato e organizzato l’omicidio del figlio con lucida freddezza e determinazione, recandosi persino a fare un sopralluogo a prima mattina per verificare dove scaricare il cadavere del bambino dopo averlo ucciso. Con questo proposito lo avrebbe fatto salire in auto per portarlo a scuola e, un minuto dopo, lo avrebbe fatto ridiscendere dandogli le chiavi di casa, perché aveva già pianificato l’omicidio nei minimi particolari. Dopo aver accompagnato il più piccolo alla ludoteca, avrebbe parcheggiato l’auto in garage per rendere più agevole il trasporto del corpo e sarebbe salita nella propria abitazione dove sapeva di trovare Loris; nello spazio di 36 minuti gli avrebbe legato i polsi dietro la schiena e lo avrebbe strozzato con una fascetta da elettricista. Una vera e propria esecuzione. Avrebbe trascinato poi il corpicino esanime per tre piani di scale fino allo scantinato e, dopo aver scaraventato il figlio agonizzante nel bagagliaio dell’auto, avrebbe parlato tranquillamente al telefono con il marito, infine si sarebbe diretta al Mulino Vecchio per sbarazzarsi del cadavere (scavalcando un muretto e gettandolo in un fosso in soli 6 minuti). Dopodiché sarebbe andata a seguire il corso di cucina, come se nulla fosse accaduto.

Affermando di ritenere valida questa ricostruzione, il Gip di Ragusa ha emesso l’ordinanza di custodia cautelare la cui formulazione stessa tuttavia contraddice la tesi della procura, in quanto motiva l’arresto scrivendo che la Panarello è “incapace di controllare gli impulsi omicidi". Questo significa che la donna avrebbe agito in base ad un raptus improvviso e incontrollabile, il contrario di quanto emerge nella ricostruzione del delitto, in cui viene dipinta come una assassina scaltra e avveduta che avrebbe pianificato ogni dettaglio dell’omicidio, occultato il cadavere, e si sarebbe poi recata al corso di cucina a Donnafugata per crearsi un alibi, dimostrando una “professionalità” nel crimine, un sangue freddo e una spietatezza degni del più efferato sicario.

Secondo gli inquirenti, inoltre, questa donna dall’aspetto emaciato e fragile celerebbe una forza erculea, visto che avrebbe trasportato il corpo di un bambino di 8 anni giù per tre rampe di scale senza il minimo sforzo (e rischiando di essere vista dai vicini) e lo avrebbe poi estratto dal cofano dell’auto (peraltro ingombro di cianfrusaglie) e lanciato in un fosso superando un muretto di mezzo metro.

Difficile credere che un magistrato possa ritenere convincente una ricostruzione che apparirebbe improponibile persino come trama di un film fanta-poliziesco di infima categoria.

Eppure…

Eppure il Gip ha dimostrato una tale sicurezza nell’accusare la Panarello, esprimendo di fatto una condanna prima ancora di celebrare il processo, da far pensare che la procura abbia acquisito una prova inconfutabile, la codiddetta “pistola fumante”, un video che inchioda l’assassina mentre esegue il delitto.

E’ quello di cui sono convinti la maggior parte dei “colpevolisti”, i quali ritengono che i giudici abbiano in mano qualche elemento inoppugnabile per suffragare la loro tesi. Come spiegare altrimenti il giudizio duro e lapidario espresso dal Gip nell’ordinanza di fermo, giustificata con un «fondato pericolo di fuga» della donna di cui sottolinea la «evidente volontà di volere infliggere alla vittima sofferenze» con «un’azione efferata, rivelatrice di un’indole malvagia e priva del più elementare senso d’umana pietà».

Come può un magistrato sbilanciarsi a tal punto senza avere la certezza assoluta della colpevolezza, si chiedono in molti.

Possibile che l’accusa si basi solo su ipotesi, irrilevanti contraddizioni nelle successive deposizioni della donna e immagini confuse e sgranate ricavate da video di sorveglianza i cui orari non sono evidentemente sincronizzati tra loro?

Gli stessi inquirenti che li hanno visionati pare abbiano pareri discordanti: l’auto è o non è quella della Panarello? Dicono sia “compatibile” per colore e forma, ma come essere sicuri che sia proprio la sua, visto che la targa è illeggibile? Di auto scure a Santa Croce in Camerina ne circolano parecchie. Le riprese delle telecamere evidenziano un percorso diverso da quello indicato dalla donna, ma non stiamo parlando di un cameraman che ha seguito ogni spostamento dell’auto, si tratta di un dispositivo fisso che punta in un’unica direzione e basta spostarsi di qualche metro per non essere più nel suo raggio d’azione. In un fotogramma sfocato si intravede un’ombra che scende da un’auto scura e si dirige verso l’abitazione degli Stival, chi può affermare che quella figura indistinguibile appartiene proprio al piccolo Loris? Il padre stesso non ne è certo.

In quanto alle presunte contraddizioni della Panarello, è già difficile per qualunque persona ricostruire con esattezza i propri spostamenti del giorno prima, per giunta qui stiamo parlando di una madre alla quale hanno appena annunciato che il figlio è stato ucciso, come ci si può aspettare che mantenga la lucidità e la concentrazione necessarie per rammentare ogni particolare e rispondere accuratamente ad ogni domanda? Quale madre, confidando fiduciosa nelle autorità per far luce sull’omidicio del figlio e mai immaginando di poter essere ritenuta l’assassina della propria creatura, potrebbe supporre che una semplice esitazione, un tralasciare un particolare o ricordarselo successivamente, possa rivelarsi un’arma da usare contro di lei?

Possibile che gli inquirenti non abbiano tenuto conto di questi fattori emotivi?

E’ davvero preoccupante pensare che si possa imprigionare una persona sulla base di semplici indizi. Perché anche ammettendo che la madre abbia mentito sul percorso da lei effettuato quella mattina, come si fa a dedurne che sia una assassina? Potrebbe aver mentito per mille ragioni e mantenuto la prima versione per paura di peggiorare la situazione, forse si sentiva in colpa per aver lasciato il bambino da solo, visto quello che gli è accaduto, forse temeva di essere accusata di negligenza dai familiari e dal marito. Potrebbe pure essersi recata al Mulino vecchio quella mattina per incontrare un amante ma questo non significa assolutamente che abbia poi ucciso il figlio. Ci vogliono prove per negare la libertà a una persona e gli indizi finora raccolti non lo sono. Eppure i giudici sembrano irremovibili nella loro convinzione.

Certo, sanno di non dover rispondere di eventuali errori dinanzi alla legge, ma se dovessero emergere evidenze che dimostrano la infondatezza delle loro accuse, come si perdonerebbero la crudeltà con cui hanno impedito ad una madre di piangere sulla bara del figlioletto e di essere consolata dagli affetti rimastigli dopo la tragedia che l’ha colpita?

Perché se non esistono elementi certi per giustificare la detenzione di Veronica Panarello, l’assenza “del più elementare senso d’umana pietà” è da attribuire ai magistrati che hanno firmato l’ordine di arresto e ai giudici del riesame che le hanno negato persino i domiciliari.

In questo come in altri casi, per giunta, si insinua la sgradevole impressione che siano stati i media, prima ancora degli inquirenti, a dirigere i riflettori sulla madre dopo aver abbandonato la pista del cacciatore, influenzando pesantemente non solo l’opinione pubblica ma anche gli stessi inquirenti. Chi non ricorda i titoli che si sono rincorsi per giorni come un tam tam su tutti i giornali: “la madre ha mentito”, “la sua versione non convince”, e poi la notizia quasi trionfante “E’ stata lei!” che lasciava credere che avesse confessato o fosse stata inchiodata da prove schiaccianti.

E mentre la bestia mediatica attanagliava con sempre maggiore ferocia la sua vittima, agli occhi della maggior parte della gente avveniva la trasfigurazione: la donna minuta e fragile, impietrita dal dolore, che aveva commosso l’intero paese, si trasformava progressivamente in una assassina “dall’indole malvagia” capace di “infliggere sofferenza” al proprio bambino “con un’azione efferata”.

Si può supporre che anche i magistrati possano essere vittime di questo condizionamento collettivo che, una volta insinuatosi nelle loro menti, li porta a costruire un impianto accusatorio basato sulle loro convinzioni, ignorando gli indizi contrari ma anzi adeguandoli per farli combaciare con la loro tesi.
Potrebbe essere questo il motivo per cui l’ora presunta della morte del piccolo Loris, inizialmente stimata tra le 10.00 e le 10.30 (orario in cui la Panarello seguiva un corso di cucina ed aveva quindi un alibi), è stata aggiustata (da altri periti venuti da Roma) per farla collimare con l’ora in cui è rientrata a casa e avrebbe ucciso il figlio. In principio si era parlato di una bambina, compagna di scuola, che aveva visto Loris scendere dall’auto della mamma ed entrare in un chiosco per comprarsi un panino, di una vigilessa che aveva visto l’auto della madre dirigersi verso la scuola, insomma sembrava che in molti avessero visto il bambino e la madre quella mattina, ora questi testimoni sono svaniti nel nulla.

Per quanto ne sappiamo, gli inquirenti stanno convulsamente cercando indizi per suffragare la loro tesi e dimostrarla in tribunale, senza più indagare in altre direzioni. In altre parole, non cercano la verità ma solo di dimostrare la “loro verità” e questo è molto preoccupante, non solo per Veronica Panarello ma per tutte le potenziali vittime di errori giudiziari.

E’ lecito quindi chiedersi se, dopo una presa di posizione così netta e dura nei confronti della Panarello, i magistrati avrebbero l’onestà e il coraggio di ammettere il proprio errore se si trovassero in presenza di elementi che confutano la loro tesi, oppure si ostinerebbero a sostenere l’ipotesi accusatoria contro ogni logica, come fece la procura di Bari che indagava sul caso della morte dei due fratellini Pappalardi, a Gravina di Puglia.

Infatti, in quel caso, anche quando la dinamica dei fatti fu chiara a tutti, il procuratore si ostinò a difendere il quadro probatorio elaborato in precedenza, rifiutando di rilasciare quel povero padre distrutto dal dolore e impedendogli di assistere al funerale dei figli da uomo libero. Questo atteggiamento scatenò la rabbia di molti cittadini che scrissero messaggi al Presidente della Repubblica e oggi varrebbe la pena rileggerli, come questo per esempio:

“Sono profondamente colpito da questa vicenda, come da altre simili, quando la macchina della giustizia trita un innocente senza alcun riguardo né per lui né per i suoi familiari… come non ricordare il caso del professor Schillaci, accusato di aver violentato la figlioletta che invece era affetta da tumore e poi è morta, in quel caso si scomodò perfino il presidente delle repubblica Cossiga per chiedere scusa… e adesso scusa dovrebbero chiederlo a Pappalardi, il cui unico peccato è stato forse quello di avere una faccia da duro, perfetto colpevole per dare un senso al lavoro di magistrati ignobilmente incompetenti… c’è solo da sperare di non essere mai nel posto sbagliato al momento sbagliato, in Italia è molto facile diventare protagonisti del racconto di Kafka…”

Purtroppo la storia si ripete, anche alla madre di Loris è stato negato il diritto di piangere sulla bara del figlio, chi le chiederà scusa quando si scoprirà la verità? E, soprattutto, qualcuno la cercherà davvero questa verità?

Patrizia Ciava

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Ovviamente, nessuno vuole negare l’esistenza di madri che uccidono i propri bambini, tuttavia queste donne hanno delle caratteristiche che le accomunano; in genere presentano disturbi di personalità conclamati, con aspetti aggressivi e comportamenti impulsivi, abuso di alcool o sostanze stupefacenti e frequenti ricoveri in ospedale psichiatrico, donne che abusano in modo regolare e continuo dei loro figli usando violenza fisica, trascuratezza, promiscuità sessuale, e che spesso provengono a loro volta da famiglie problematiche ove loro stesse sono state vittime di maltrattamenti ed abusi in giovane età. Spesso le madri figlicide pianificano il proprio suicidio subito dopo l’uccisione del figlio e, nella loro visione distorta della realtà, pensano di proteggerli da un mondo ostile e pericoloso.

Soprattutto, non vi è, nella storiografia criminale di tutti i tempi, riscontro di madri infanticide che, in un lasso di tempo più che breve, non abbiano confessato il loro misfatto dimostrando tutta la loro patologia e il loro dramma.

Nel caso di Veronica Panarello, il dottor Emilio Sacchetti, presidente della Società Italiana di Psichiatria, afferma che “se c’è una malattia mentale si devono vedere dei segni importanti, non ci si ammala da un giorno all’altro, bisogna trovare elementi concreti, e da quello che sta emergendo finora non se ne vedono.”

Secondo Sacchetti gli elementi del passato della mamma del bimbo che sono emersi, come la possibile ‘infanzia infelice’, non sono sufficienti. ”Per il momento non mi sembra ci siano i segni di una malattia mentale – spiega – se bastassero queste cose vedremmo questi delitti tutti i giorni. Anche l’ipotesi del cosiddetto ‘raptus’ va esaminata con attenzione, è estremamente raro che si abbia un momento di violenza così grande improvvisamente, e di solito è legato a uno stress molto forte. Qui poi c’è stata una organizzazione del delitto, che esclude il raptus. Per esserci una malattia mentale ci deve essere una storia dietro, con segnali molto forti”.

 


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