Valeria Parrella la dimissionaria

par Emanuele Midolo
lunedì 28 novembre 2011

“Lettera di dimissioni” di Valeria Parrella, Einaudi editore, 2011.
 
“Eravamo comunisti, non ho dubbi”, dice Clelia.
“Eravamo comunisti, non ho dubbi”, scrive Valeria.
 
L’ultimo libro di Valeria Parrella è retto dall’incavo di due voci, dall’incanto di due ruoli. Se c’è una cosa (tra le mille prescrizioni usuali) che la mia professoressa di letteratura italiana al liceo ci raccomandava almeno una volta ad ogni lezione, era che non si devono mai confondere quelle due istanze. Autore e narratore vanno separati alla nascita, e non c’è verso di vederli riappacificati. Neppure nell’ambiguità manifesta della prima persona. Neppure – no, non è permesso – nella sfacciataggine dell’autobiografia.
 
Ma io di quella legge assoluta, calata dall’Olimpo delle lettere, mi son sempre fatto diffidente e non ci ho mai creduto più di tanto. Ed è per questo, non senza una certa insolenza, che ho scovato una armonica convergenza in quelle due voci. Di più, vi ho voluto scorgere identità.
 
Il personaggio Clelia ci narra fatti e vicende che certo sono anche immaginari. Mentre Parrella/Parusia a volte si nasconde, altre volte affiora, raccontandoci la storia di questa immagine che tanto le somiglia. E lo fa con una lingua tesa fino allo spasimo, una scrittura tanto lussureggiante nella modulazione di frasi che non finiscono mai dove te l’aspetteresti. “Lettera di dimissioni” avanza così, come un incidente di percorso, una deviazione talmente piacevole da non far sentire che si sta andando alla deriva.
 
Un certo equivoco del sud mi ha fatto pensare agli scrittori delle mie parti, ai narratori siciliani novecenteschi ed a quella scrittura che ho vergogna a chiamare barocca. Ho ritrovato le dicerie di un Bufalino, le storie semplici di uno Sciascia e quelle un po’ più complesse di un Pirandello; mi sono scoperto addosso le ferite di quel Vincenzo Consolo col quale spartisco una coincidenza geo-anagrafica e la passione civile. Nottetempo, leggendo Valeria Parrella, mi si è svelato quanto anche lei condividesse gli stessi aggettivi, la stessa poesia.
 
Questo romanzo, che ci parla della storia della sua protagonista e allo stesso tempo della Storia più recente del nostro Paese, che intreccia con tenacia un fascio di domande necessarie, che spalanca agli occhi dei suoi lettori una rassegna di vite difficili da dimenticare. Questo romanzo – dicevo - è stato una sorpresa.
 
“Le cose non si compiono all’improvviso, ma all’improvviso le vedi nel loro intero”. Così è stato per me, con la lettera di Valeria Parrella. E così, d’un tratto, mi sono trovato a passare dalle vicende di una famiglia allargata quanto può esserlo una del sud, reticolo di esistenze intrecciate (“con il figlio prediletto e gli altri intelligenti ma reietti, belli ma non bravi, l’attaccabrighe e l’ammortizzatore”), alla storia di una sola singola voce.
 
Quella di Clelia. Che prende forma e nome per la prima volta forse dopo un centinaio di pagine – il suo avvento preparato da un groviglio di episodi “familiari” – e divide in due il romanzo, come un incontro può dividere in due una vita, tra un prima necessario ed un dopo inevitabile, in una cronologia impossibile da determinare con esattezza. Comune a chi è “in continuo commercio con l’esistenza”.
 
La seconda, e la terza parte. Il secondo ed il terzo tempo. Insieme all’epilogo. È stato solo a quel punto che la mia condizione di lettore si è fatta per un attimo da parte ed è intervenuta la curiosità. Ho scritto il nome della Parrella su internet e - sorridendo - ho letto quello che speravo di leggere:
 
“Dal gennaio 2008 al dicembre 2010 è stata nel comitato di Direzione artistica del Teatro Mercadante di Napoli, dal quale si è dimessa”
 
La mia professoressa con tutta probabilità s’incazzerebbe a morte per questa incursione di biografia nell’opera, ma mi fa piacere pensare che avevo ragione anche se avevo torto. E quindi non do un giudizio, ché non sono un critico e non ho voluto esserlo mai (benché lei ci sperasse tanto).
 
In fondo, per quanto ne so io, “Lettera di dimissioni” è solo un romanzo.
 
 

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