Utopia matters: dalle Confraternite al Bauhaus 1 maggio–25 luglio 2010
par REPORTER
martedì 4 maggio 2010
Come i Primitivi e i Nazareni, anche i Preraffaelliti guardano al passato, affermando la propria fedeltà all’arte
e alla filosofia dell’epoca che precede Raffaello, in cui dominavano le corporazioni. Annoverano artisti come William Holman Hunt, John Everett Millais e Dante Gabriel Rossetti, la cui produzione privilegia le nitide narrazioni pittoriche nello stile del Quattrocento italiano, scegliendo soggetti tratti dalla storia e dalla letteratura medievali, dalle opere di William Shakespeare e dalle storie religiose, per evocare epoche in cui cavalleria, purezza d’animo e moralità regnavano sovrane.
Col finire del secolo, in seguito all’avvento di ideali di sinistra, molti movimenti, tra cui in Francia i neoimpressionisti, adottano ambizioni utopistiche di natura politica, facendo della propria arte strumento di
difesa dei diritti dei lavoratori e di critica nei confronti del capitalismo. Nelle proprie opere, i neoimpressionisti descrivono un mondo idealizzato, di stampo progressista, in cui lavoro, arti e attività ricreative si fondono in una società unificata, e utilizzano una tecnica pittorica divisionista, vagamente basata su teorie scientifiche, fondendo metodi contemporanei e descrizioni idealiste. Mentre Camille Pissarro dipinge paesaggi bucolici e cicli pastorali di vita contadina, che ritraggono i lavoratori armonicamente inseriti nel ritmo della vita di campagna, con un linguaggio più impressionista, Paul Signac ed Henri-Edmond Cross ( Gita, 1895) dipingono nello stile ispirato alle teorie divisioniste, prendendo spunto per le proprie immagini, dal vocabolario visivo pastorale classicheggiante.
All’inizio del Novecento si osserva un cambiamento nelle finalità dei gruppi utopistici in via di formazione.
Con l’avvento dell’astrazione e specialmente dopo gli orrori della Grande guerra, si verifica una svolta verso un’idea di verità incarnata in pure forme astratte che vengono equiparate all’armonia. I fondatori di De Stijl, un piccolo gruppo di artisti, architetti e poeti olandesi capitanati da Theo van Doesburg ( Contro-composizione XIII, 1925–26) credono che le proprietà formali di architettura, arte e design possano contribuire a creare un senso di armonia negli e tra gli individui. Per dare vita a un linguaggio visivo di livello universale, gli artisti De Stijl creano dipinti basati su forme geometriche bidimensionali, diversi per dimensioni e gamma di colori. La speranza del De Stijl di rivoluzionare le relazioni sociali e la cultura mediante un linguaggio artistico di forme “ridotte” è riscontrabile nei movimenti che nascono in quel periodo, in special modo nel Bauhaus, scuola pubblica d’arte, architettura e design, fondato a Weimar nel 1919, dall’architetto Walter Gropius. La scuola riunisce i principali artisti e designers dell’avanguardia in un gruppo di lavoro che si propone di ricostruire la società del dopoguerra grazie all’arte e al design. Tra i maestri del Bauhaus, in mostra a Venezia, spiccano Vasily Kandinsky ( Dipinto blu, 1924) e Joseph Albers (Concatenato, 1927).
Anche Lenin e i bolscevichi, che assumono il potere in Russia dopo la rivoluzione del 1917, inseguono una
visione utopica, sebbene incentrata sulla ridefinizione dei rapporti tra le classi sociali. Tuttavia, in campo artistico, Lenin sostiene gusti estremamente conservatori e preferisce la cultura borghese dell’Ottocento europeo alle poetiche radicali dell’arte non-oggettiva dei costruttivisti.Il percorso espositivo termina proprio con gli inizi degli anni ’30 del Novecento, quando l’ascesa del fascismo
portò alla chiusura, nel 1933, del Bauhaus a Berlino e lo stalinismo ridisegnò i progetti del costruttivismo Russo in Unione Sovietica. Ciononostante gli esperimenti utopistici persistono, dalle colonie e dai collettivi di artisti fino alle comunità ecologicamente autosufficienti, dando vita ai numerosi capitoli di una storia che ci conduce fino ai giorni nostri.
http://www.guggenheim-venice.it/exhibitions/mostre.php?tipo=2