Uscire dall’Euro: vademecum per ingenui europeisti e fondamentalisti anti-Merkel

par Francesco Finucci
lunedì 25 febbraio 2013

L’ipotesi di uscire dall’Euro è ormai entrata nel novero delle possibilità della politica estera italiana. In particolar modo l’idea che un referendum al riguardo sia necessario per sondare l’opinione dei cittadini ha coinvolto più soggetti, dalla Lega Nord al Movimento 5 Stelle. Ma quali prospettive apre tale ipotesi sarà probabilmente uno del temi fondamentali della prossima legislatura, al di là della sua realizzabilità sul piano pratico.

In un recente incontro del Movimento 5 Stelle a Fiano Romano, uno dei temi che più hanno occupato le diatribe politiche tra partiti è stato in ultimo dibattuto, stavolta messo in gioco da uno degli spettatori. Si è domandato infatti circa la possibilità di un referendum sulla permanenza nell’eurozona. Sebbene un solo individuo non faccia molta statistica, mi è venuto da pensare che forse quella che fin’ora è stata una delle tante proposte in una più generale ondata di anti-europeismo abbia ora acquisito una più specifica importanza tra le istanze degli elettori. Varrebbe allora la pena di discuterne, alla larga da ingenui europeismi e da fondamentalismi del partito anti-Merkel.

Il punto di partenza di una riflessione attorno all’euro è naturalmente il referendum. L’ipotesi - paventata sia da Grillo che da Maroni - è quella di un referendum consultivo, che nel caso del M5S non dovrebbe essere vincolato da quorum. Non di uscita dall’euro si parlerebbe - e questo il Movimento l’ha più volte precisato - ma di consultazione dell’elettorato. Come spiega giustamente Enzo Cannizzaro - ordinario di Diritto dell’Unione Europea alla Sapienza - però l’uso di tale strumento è categoricamente escluso dalla Costituzione, all’articolo 75: “Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratifica dei trattati“. Più difficile da individuare è invece dove Cannizzaro veda all’interno della Costituzione il divieto esplicito di referendum consultivi (atti cioè esclusivamente ad indagare la volontà degli elettori), anche se va segnalato come esso rimanga marginale e relegato all’ambito regionale e degli enti locali. Centrale è invece una questione di opportunità, sia perché la frequente richiesta di intervento tende a stancare presto i cittadini, sia perché comporterebbe dei costi non irrilevanti.

Resta il fatto che la disposizione dell’articolo 75 è molto ben chiara, e come sottolinea Paolo Becchi difficilmente Grillo avrà possibilità di avviare processi di revisione costituzionale. Nei remoti balbettii di una gorbacioviana “casa comune Europa” questo potrebbe naturalmente bastare. Non è d’altronde poco: in capo alla Corte Costituzionale sta la facoltà di indagare preventivamente il rispetto della Costituzione nei quesiti referendari, quindi la proposta non arriverebbe neanche alla popolazione. Morirebbe sul nascere. La questione di base continua a rimanere però là dov’è, semmai rinforzata dal muro così alzato: è dunque impossibile uscire dall’Euro? Siamo dunque così scarsamente liberi? Dove finì la nostra sovranità perduta?

Per capire questo può essere utile dotarsi di un buon manuale di Diritto Internazionale e spulciarlo adeguatamente. Se ne ricaverà innanzitutto un principio cardine delle relazioni tra stati, sintetizzato nel brocardo “pacta sunt servanda“. Il che sta sostanzialmente a significare che gli accordi tra stati devono essere rispettati, a meno che si verifichino situazioni eccezionali. Tale principio è recepito dalla nostra Costituzione all’articolo 117: “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali“. Certo, ai tempi in cui il testo veniva stilato l’influenza dell’ONU si faceva sentire pesantemente sui paesi vinti. Non a caso l’obbligo di conformarsi alle norme di diritto consuetudinario (ossia lo zoccolo duro del diritto internazionale) è comune all’articolo 10 della Costituzione italiana, all’articolo 25 di quella tedesca e all’articolo 98 di quella giapponese. Questi due principi sono però alla base di una comunità internazionale capace di funzionare senza massacrarsi per una striscia di territorio in più o in meno.

Gli accordi vanno quindi rispettati. Ma c’è di più. Verrebbe da chiedersi allora dove vadano a finire il diritto di recedere da un trattato o addirittura di denunciarlo. Il punto di riferimento al riguardo è nella Convenzione di Vienna sui Trattati del 1969. La convenzione contiene due ipotesi piuttosto interessanti per il nostro simpatico amico, il dinamitardo UE. La prima rientra tra le condizioni di nullità del trattato, intesa come invalidazione dello stesso con effetto retroattivo (ex tunc). Esse sono naturalmente molte, e per queste si rinvia a citato buon manuale. Quella che ora ci interessa è contemplata all’articolo 49. Il trattato è nullo qualora la volontà dello stato contraente venga viziata consapevolmente, ossia quando si verifichi l’ipotesi del “dolo”. Inutile dire che questa potrebbe essere una posizione appetibile qualora si intenda sostenere la posizione secondo cui l’introduzione della moneta unica abbia destabilizzato alcune economie favorendone altre. Si ritiene da più parti infatti che, analogamente a quanto si verifica con un regime di cambi fissi, l’impossibilità di svalutare la moneta abbia inficiato sulle economie con tasso di produttività più basso, portandole a “importare disoccupazione”. Sono posizioni rispettabili, anche se si potrebbe rispondere che l’euro ha comportato un abbassamento dei tassi d’interesse tale da permettere investimenti che in Italia semplicemente non ci sono stati. Sarebbe però comunque difficile sostenere tale posizione di fronte agli organismi internazionali (in questo caso probabilmente la Corte Internazionale di Giustizia). Ancora più difficile sarebbe poi coinvolgere altri paesi nell’iniziativa, rischiando di isolare definitivamente l’Italia, oppure di farne una parte dei “paesi perdenti”, perché destinati ad un’alleanza dei poveri a due passi da economie molto più floride e ormai irraggiungibili.

Stessa sorte nel caso si invocasse invece una causa di estinzione del trattato (senza cioè effetto retroattivo). La Convenzione di Vienna prevede la possibilità di estinzione nel caso di “cambiamento radicale delle circostanze” (Art. 62), ma solo “nel caso in cui a) il cambiamento non fosse stato previsto dalle parti al momento della stipulazione del trattato; b) l’esistenza di quelle circostanze costituisse una condizione essenziale del consenso delle parti ad essere vincolate al trattato; c) il cambiamento abbia l’effetto di trasformare radicalmente la portata degli obblighi che devono essere adempiuti in base al trattato” (A. Cassese, Diritto Internazionale, 2006).

Il punto C è certamente il più forte tra chi vede ormai l’euro come una gabbia delle economie. In particolare si cita il fatto che la moneta unica possa essere ormai non più sostenibile sul lungo periodo. Ci si chiede se l’eurozona sia un’AVO, o Area Valutaria Ottimale, in cui la retta AVO rappresenta “le combinazioni di simmetria e integrazione fra gruppi di paesi per le quali i costi e i benefici di un’unione monetaria si equilibrano, i punti a destra della retta AVO rappresentano raggruppamenti di paesi per cui i benefici dell’unione superano i costi e viceversa i punti della sinistra” (E. Orpelli, tesi in La sostenibilità dell’euro nel lungo periodo, Università di Tor Vergata). I punti A e B cozzano però con queste pur sensate critiche. Ci si potrà recare davvero di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia recando come proprie ragioni l’ipotesi che Maastricht non preveda la possibilità di una crisi sistemica? Ciò andrebbe contro ogni natura dell’Unione Europea. Si opta per l’integrazione fino al momento in cui la crisi non batte cassa? Semmai il contrario. Questo dunque renderebbe qualsiasi rivendicazione totalmente inverosimile, dal punto di vista dei requisiti per una eventuale estinzione.

L’ultimo appello lo concede il diritto italiano, ma è molto flebile. Esso prevede che le norme di origine comunitaria possano essere sindacate, qualora si verifichi un conflitto tra norme UE e norme nazionali. In particolare, nel caso di conflitto tra norme europee e norme costituzionali non di dettaglio, la nostra normativa prevede che si possa denunciare non tanto il trattato quanto l’ordine di esecuzione, atto a portarlo all’interno del nostro ordinamento. Anche in questo caso sarebbe arduo - oltre che poco onesto - voler provare come il Trattato di Maastricht abbia portato alla violazione di principi cardine della nostra Costituzione. Vi è inoltre un ulteriore rischio, paventato dal già citato Cannizzaro. Il giurista spiega come in caso di referendum con l’ordine di esecuzione si vada ad abrogare l’intero trattato. Significherebbe quindi uscire non solo dall’euro, ma dall’unione stessa, e quindi dal libero mercato (anche se rimarrebbero in vigore le norme del Trattato di Schengen del 1985). Lo stesso si può dire nel nostro caso.

Questo ci porta all’ultimo e forse più importante punto di questa puntigliosa peppia. Non è vero come si ripete ossessivamente - forse in timore di ripercussioni - che sia impossibile un referendum sull’euro o più in generale l’abbandono dell’eurozona. Ciò che è invece senz’altro vero è che il principio di azione e reazione resta valido, in special modo per quanto riguarda le relazioni internazionali. L’Europa è il più grande azzardo che l’umanità abbia concepito, perché teorizzava la fine dello stato-nazione inteso come aggregato di paesi capaci solo di massacrarsi a vicenda, senza però ritornare all’età degli imperi. Senza cioè che gli stati sparissero lasciando un monarca con potere di vita o di morte sui propri sudditi. L’Europa è molto vicina a ciò, ma allontanarsi da essa significherebbe la fine - disastrosa - di tale azzardo. Certo, forse le economie europee non sono simmetriche come vorrebbe la teoria AVO, ma davvero costituire un’alleanza dei paesi del sud europeo oppure uscire dalla zona euro ci salverebbe da tutto questo? Non sembra credibile, se si considerano alcuni fattori.

Innanzitutto va messo in chiaro come il cambio - in un primo periodo probabilmente instabile - tra euro e moneta locale aumenterebbe il fattore di rischio per gli investitori. Il profitto per chi intenda portare liquidità in Italia diminuirebbe, se si fa eccezione per la speculazione in titoli. Anche dal punto di vista dell’industria la situazione dubito sarebbe differente. Pur sfruttando la svalutazione per aumentare l’export, la produttività in Italia non se la passa proprio bene. Lo scenario che si potrebbe ipotizzare è quindi quello del nostro paese costretto a competere con paesi il cui costo del lavoro è di gran lunga più basso (Cina, Taiwan) senza poter contare neanche su un quantitativo di produzione particolarmente alto, come per la Cina. Resterebbe dunque il secondo concorrente, e comunque la si metta la situazione non sarebbe propriamente allegra. Inoltre si deve considerare come all’interno del mercato intra-europeo l’Italia esporta il 7.5% dei prodotti e importa il 7,9% del quantitativo totale (fonte: Eurostat). Perderebbe quindi quel quantitativo di esportazioni, ma soprattutto le importazioni, rimanendo in campo energetico in balia dei paesi OPEC.

Immaginate poi gli effetti sul turismo (al 32,8% britannico, tedesco e francese)? È infatti l’umanità europea ad essere messa a rischio, l’idea che dall’Europa possa nascere un’esperienza positiva per il mondo intero, tramite la costruzione di un’identità e una fiducia comune. Il punto è ora quindi se vogliamo essere il cambiamento oppure l’arretrare di esso di fronte alla prospettiva che “dobbiamo pensare ai nostri”. Una crisi non ha bisogno di eroi o salvatori della patria. Ha bisogno di esseri umani.


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