Unorthodox: guarire dal trauma religioso

par UAAR - A ragion veduta
mercoledì 12 maggio 2021

La serie tv Unorthodox racconta di un’ebrea ultraortodossa in fuga dalla comunità d’origine. Ne parla Micaela Grosso sul n. 4/2020 della rivista Nessun Dogma.

Alla fine di marzo 2020 Netflix ha reso disponibile Unorthodox, una miniserie a firma di due donne, Anna Winger e Alexa Karolinski, tratta da una vicenda realmente accaduta.

La storia è ispirata alla vita di Deborah Feldman, che faceva parte della comunità ebraica ortodossa chassidica Satmar e che nel 2012 ha raccontato la sua fuga nel libro Ex ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche.

Nella riduzione cinematografica, Deborah Feldman è Ester Shapiro (Esty), la giovane protagonista che vive la sua infanzia nel distretto di Williamsburg, a Brooklyn, insieme ai nonni, ebrei sopravvissuti all’Olocausto. Sta con loro dal momento che la madre, ribellatasi alle regole della comunità, è stata allontanata anni prima per comportamenti definiti “empi” e poiché il padre, alcolista mentalmente instabile, non è in grado di badare alla figlia.

Nella sinossi presente sul sito del servizio di streaming, si legge: «Una donna ebrea chassidica di Brooklyn va a Berlino per fuggire da un matrimonio combinato e viene accolta da un gruppo di musicisti. Ma il suo passato la raggiunge». In realtà, nei quattro episodi che compongono la serie, molto, moltissimo spazio è dedicato al presente. Si tratta di una licenza registica, giacché lo sviluppo della vita a Berlino è frutto della fantasia delle ideatrici. Al di là di chi concorda o meno con la scelta di inventare di sana pianta la seconda e importante parte della vita di una ragazza che non ha quasi vissuto un’infanzia, è qui molto significativa l’enfasi attribuita all’elemento del viaggio, che consente alla protagonista di dismettere i panni religiosi, spogliarsi simbolicamente (e fisicamente) dei vessilli di una fede coercitiva e limitante, cominciando a scrivere la propria storia di realizzazione personale.

Il viaggio intrapreso le consente, gradatamente e non senza difficoltà, di avviare un percorso di elaborazione del distacco dalla comunità che un tempo costituiva l’unica dimensione possibile e desiderabile, accostandosi alla lenta e dolorosa guarigione dal trauma religioso. Quest’ultimo, nelle parole della terapista Kathryn Keller, specializzata nel campo dell’abuso spirituale, ha luogo «[…] quando la religione o la spiritualità sono usate per infliggere danno a qualcuno, intenzionalmente o meno. Implica un abuso di potere e spesso provoca vergogna. Potrebbe essere perpetrato da un individuo, una famiglia o un gruppo religioso. Si verifica in un continuum che va dalla lieve manipolazione o da norme culturali svalutanti alla coercizione estrema che depriva la persona di un vero senso di sé».

Nella comunità Satmar di lingua yiddish, in cui Deborah/Ester cresce, la coercizione dell’individuo, specialmente se di sesso femminile, è una delle basi della vita religiosa. Ai componenti sono preclusi la televisione, il cinema, la lettura dei quotidiani non religiosi e internet; lo stile di vita è interamente regolato dalla Torah. La donna, in particolare, frequenta scuole diverse dagli uomini e segue un comportamento caratterizzato da tzniut (modestia, riservatezza), portando pertanto gonne lunghe fin sotto le ginocchia e vestiti accollati. In prossimità del matrimonio (combinato e vincolante), è obbligata a radersi la testa e ad adottare una parrucca (sheitel) o un turbante che per la vita la proteggerà dagli sguardi, dedica ogni minuto della propria esistenza al tentativo di concepire figli per l’uomo, abbandona ogni velleità artistica o creativa in favore di una rigida osservanza.

Nella comunità da cui proviene Esty la libertà individuale, sia per gli uomini sia per le donne, è estremamente ridotta, e l’emancipazione personale non è presa nemmeno in lontana considerazione. Le tradizioni, spesso asfissianti, esercitano infatti una fortissima pressione psicologica anche sul marito della ragazza, il giovane Yanky, che le offre il suo amore con la stessa, rigida visione della vita ereditata dalla sua famiglia.

Quando lo lascia per fuggire, Esty non lo fa a causa sua: è solo arrivata al punto di rottura. Si organizza, si procura dei soldi e parte, per la disperazione. Sceglie tra le destinazioni Berlino per via di sua madre, ma non va alla sua immediata ricerca, anzi: in un primo momento la evita. Non sapere ancora, a diciannove anni, chi è e che cosa vuole, le rende impossibile capire che tipo di aiuto chiedere. La sua esitazione si concretizza anche sul piano linguistico: sono molto frequenti i passaggi dalla lingua yiddish all’inglese e al tedesco.

Come sua madre, che vive ormai da anni a Berlino con la compagna di vita, Esty con la fuga rinuncia al nido che l’ha cresciuta, ai legami affettivi, alle lezioni di piano che prende clandestinamente, all’amore dei nonni e, non da ultimo, del giovane e devoto marito. È consapevole di andare incontro a un grande dolore, e lo affronta con coraggio: non ci sarà più alcun rituale a rassicurarla, dovrà cercarsi un lavoro, cambiare lingua e abbandonare la sua comunità, l’onnipotente bolla protettiva. Sa bene che il prezzo dell’allontanamento è la frattura dei rapporti familiari, ma è l’unica via d’uscita verso la guarigione dal trauma. Lo fa per la sua felicità futura, per dare spazio alle aspirazioni che non ha mai potuto coltivare. Così strappa il cerotto e parte, iniziando la convalescenza.

Micaela Grosso

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