Una società che emargina i migliori e premia i mediocri
par Daniel di Schuler
mercoledì 12 ottobre 2011
Stupisce la modestia, intellettuale prima di tutto, dei ministri di cui si è circondato Silvio Berlusconi e di cui la Gelmini è il più brillante, si fa per dire, esempio.
Stupisce, ma solo fino ad un certo punto, quando è la nostra intera società che premia i mediocri, che cerca forse di eliminare i peggiori, ma sicuramente emargina i migliori.
E' così da sempre; è più che mai così da quando la specializzazione, la suddivisione fordista della cultura, ha reso possibile la produzione "industriale" degli intellettuali. Da quando accademie ed università hanno iniziato a sfornare artisti e scienziati, dirigenti e burocrati, fatti con lo stampino.
Vi dicono niente i nomi di Bouguereau, Couture e Cabanel? Furono i maestri conclamati dell'arte francese di fine '800; gli ottimi mediocri che ebbero denari ed onori mentre Van Gogh non riusciva a vendere un solo quadro.
Parlo di pittura perché è quel che meglio conosco, ma lo stesso potrebbe dirsi in ogni campo tranne, forse e solo fino ad un certo punto, la musica: non sono solo i potenti a cercare la rassicurazione della mediocrità, è l’uomo-massa che disdegna tutto ciò che non è immediato; che non parla un linguaggio piano, diretto e, soprattutto, consueto.
Una spinta al conformismo che non è nuova, ma che non è mai stata così forte come in questa epoca, quando un modo unico d’intendere l’economia, i rapporti sociali e l’educazione si è diffuso su tutto il pianeta, producendo una cultura omogeneizzata e massificata che, ne sono certo, i nostri nipoti guarderanno con un disprezzo ancor più profondo di quello che riserviamo alle opere dell’Art Pompier: quei pittori, perlomeno, conoscevano perfettamente il proprio mestiere.
Di tanti intellettuali d’oggi, artisti e scienziati, come di tanti politici o giornalisti, non possiamo neppure dir quello: del loro mestiere conoscono solo frammenti; qualche trucco imparato in fretta con cui imbonire il proprio pubblico.
Restano i grandi? Accadono ancora i giganti? Certo. Neppure un sistema scolastico come l’attuale, fatto apposta per cancellare ogni traccia d’individualità, che ha smesso di dare cultura e non dà più neppure erudizione, può evitare che appaiano.
Il loro destino è comunque segnato: li attende l’emarginazione. Sono i "cavalli pazzi" da tenere lontani dal branco, da infilare in manicomio o, oggi, da spedire sul lettino dello psicanalista. I diversi da ascoltare affascinati per una sera, ma le cui parole devon esser dimenticate in fretta. Altrimenti, che sarebbe di noi?
Geni che vengono spesso riconosciuti postumi, ma che anche allora sono evirati; privati del loro potenziale eversivo. Li si santifica, li si fa diventare super-umani e quindi inumani. Fenomeni da baraccone, come la donna barbuta e l’uomo più alto del mondo, da ammirare, addirittura venerare, ma certo non da imitare.
Sono gli sciamani dei tempi antichi, gli uomini alla cui sensibilità ed intelligenza la tribù affidava la propria sopravvivenza, che sono stati messi in condizioni di non nuocere da chi, guardando il mondo con il paraocchi anziché la complessità con le sue incertezze, vedeva una sola direzione possibile allo sviluppo. Un corso d’azioni immediate, subito efficaci, le cui conseguenze a lungo termine sembrava potessero essere ignorate.
Un meccanismo che si autoalimenta, quello tra tribuni e plebe, tra capibranco e individui massificati, e che non accenna a disinnescarsi neppure ora, quando i limiti dello sviluppo sono evidenti a chiunque voglia vederli; quando l’incapacità degli specialisti di produrre nuovi paradigmi è conclamata.
Ci sarebbe da essere pessimisti se non vi fossero delle fiammelle d’intelligenza che, ostinatamente, nonostante tutto, continuano a brillare.
Devo a Erri De Luca, più che ad ogni altro, il coraggio che trovai quando venti e più anni fa, abbandonai il badile deciso a fare di meglio (non è affatto detto che vi sia riuscito) della mia vita. Quando ho saputo che era stato ospite di Fazio, sono corso a guardare la registrazione di quel programma come avrei fatto se al posto suo ci fosse andato mio fratello o il mio miglior amico.
Il suo intervento, quei dieci minuti in cui ha parlato guardando dentro le telecamere con quello sguardo di uomo che ha visto davvero il mondo, non mi ha ricordato solo cosa fosse l’Italia e quale il destino che la geografia, prima d’ogni altra cosa, le avesse dato in sorte.
Mi ha restituito la serenità di sapere che, in un mondo di carnefici-vittime e di vittime-carnefici, di mediocrità glorificate e di glorie mediocri, c’è ancora chi riesce a volare alto, a vedere la strada e ad indicare la via.