Una piccola parabola indiana

par Daniel di Schuler
giovedì 5 luglio 2012

Mentre interi settori della nostra società si irrigidiscono nel timore di dover affrontare il cambiamento.

Era sempre trafficata la strada che portava in città. C’era un punto, in particolare, in cima ad una piccola collina, in cui dei lavori in corso provocavano ogni mattina una lunga colonna di camion coloratissimi, automobili di ogni età, carri tirati dai buoi, cammelli e addirittura (sì pensavo anche io che esistessero solo nei documentari del National Geographic prima di finire da quelle parti) qualche elefante. La città si chiamava Lucknow e, anche se il suo nome dice poco alla maggior parte degli italiani, era già avviata a superare i due milioni di abitanti ed era (ed è) la capitale dell’Uttar Pradesh, lo stato più popoloso della confederazione indiana che nel frattempo, ormai è passato più di un decennio da allora, con buona pace dei leghisti, degli anti-europeisti e di tutti gli altri amanti del campanile, di milioni di abitanti è arrivato a sfiorarne 200.

Data l’anarchia del traffico indiano, non guidavo io; ci pensava Ash, mio autista e, benché insistesse nel chiamarmi sir e non volesse saperne di lasciar perdere l’uniforme: “Che figura ci farei, con gli altri, sir?”, mio amico. Perlomeno fino al punto in cui può esserti amico qualcuno che guadagna trenta volte meno di te e il cui lavoro, peraltro straordinariamente ben retribuito rispetto alla media, in quel paese e in quell’epoca, dipende, in buona sostanza, dai capricci del tuo umore.

Ash, ad ogni modo mi permetteva di rilassarmi sul sedile posteriore dell’Ambassador (una specie di Ford Granada fatta in loco; auto di gran lusso visto che giravano ancora frotte di Fiat 1100) a cercare di dormire un altro po’.

Un giorno, però, per una qualche ragione, l’ingorgo in cima alla collina fu peggiore del solito; tanto che ebbi il tempo di svegliarmi del tutto ed il modo di osservare come venivano portati innanzi quei lavori che procedevano così a rilento (anche se più velocemente di quanto non facciano i nostri cantieri stradali, perennemente fermi in attesa che qualche giudice decida in merito all’ennesimo ricorso, ma questa è un’altra questione). Stavano effettuando uno sbancamento, ad ogni modo, e lo stavano facendo senza usare alcuna macchina. Degli uomini, caricavano con un paio di badilate di terra dei larghi e bassi cesti che una fila interminabile di donne si caricava sulla testa per andare a svuotare, in cima ad un grande mucchio, ad una cinquantina di metri di distanza.

Quello spettacolo, certo meno terribile di altri a cui ho assistito durante il mio soggiorno indiano, dapprima mi riempì di pena; com’erano magre quelle donne costrette a lavorare a quel modo, coperte di stracci, a piedi nudi nel fango che gli arrivava alle caviglie. Poi, complice il ritardo che stavo accumulando, mi irritò: accidenti, io, che fino a pochi anni prima avevo fatto il manovale, con una carriola avrei potuto fare, da solo, il lavoro di una ventina di quelle disperate. Non avrei proprio dovuto, sapendo quanto fosse suscettibile ad ogni critica riguardasse il suo paese, ma dopo un po’, mentre avevamo percorso solo poche decine di metri, non potei fare a meno di rendere partecipe Ash di quella mia considerazione.

“Ma quelle donne non hanno i soldi per comprare una carriola”, iniziò a spiegarmi Ash con la calma ed il sorriso che era solito usare quando voleva farmi sentire un deficiente. “E poi, se una facesse il lavoro di venti, le altre cosa farebbero?”, continuò, sempre sorridendo, prima di concludere con la frase con cui era solito troncare qualunque discussione lo mettesse a disagio: “E comunque si è sempre fatto così”.

Povero Ash, era proprio nato nel paese sbagliato; fosse stato italiano, con ragionamenti del genere avrebbe potuto fare una brillante carriera nella nostra politica, nei nostri sindacati o nella nostra pubblica amministrazione.


Leggi l'articolo completo e i commenti