Una classe politica inadeguata al suo tempo

par daniele pittèri
martedì 8 febbraio 2011

In un romanzo di trent’anni fa, ripubblicato da poco, il sociologo Alberto Abruzzese sembra dotato del dono della preveggenza, perché è capace di offrirci una lucida e spietata rappresentazione della classe politica, in particolare di quella di sinistra, e della sua trasformazione vampirizzante. Anche se riferito, ovviamente, ai dirigenti e agli uomini di partito del 1982, il romanzo sembra scritto ieri, tanto il protagonista sembra aderente all’attualità.

C’è un romanzo che si intitola Anemia e che Alberto Abruzzese ha scritto quasi trent’anni fa, nel 1982, in un’epoca in cui la politica iniziava a manifestare i primi segni di deterioramento, ma che mai nessuno avrebbe immaginato potesse decomporsi fino allo stato attuale. A rileggerlo oggi (è stato da poco rieditato, con una bellissima Nota introduttiva a firma dell’autore che ripercorre la genesi del romanzo), sembra un romanzo scritto ieri, perché ci propone una visione spietata di una classe politica asfittica e priva di visione, incapace di concepire se stessa come qualcosa di vivo e pulsante.

Anemia è la storia di una metamorfosi e della sua “normalizzazione”, della sua sublimazione non traumatica nella quotidianità: la trasformazione in vampiro di Umberto U., giovane e promettente alto funzionario di partito. Poco brillante nonostante l’età, con una vita perfettamente incastonata dentro l’essere un uomo politico in ascesa, Umberto U. è organico ad una cultura in cui l’ideologia, l’identità, l’appartenenza, il pensiero forte sono abiti mentali e fisici, orientano il pensare, l’essere e l’apparire. Una storia che, come si diceva prima, letta oggi appare di straordinaria attualità, più che la metafora perfetta del tempo presente, la trasposizione nel presente di un’epoca della politica che si pensava passata e che, probabilmente, invece è stata soltanto sospesa.

Nel ricostruire la genesi del romanzo e del clima che lo determinò Abruzzese, infatti, propone una serie di argomentazioni: gli anni Ottanta, ritenuti l’epoca di una vitale e silenziosa rivoluzione che ha completamente polverizzato il Novecento e le sue utopie; l’evoluzione dei consumi di massa, letti come dilaniante desiderio di dissipazione; l’irrompere potente dell’immagine e dei mass media più che nella quotidianità al fianco di essa. Ed è qui dentro queste riflessioni che ci si imbatte in una frase bellissima e catastrofica: “mi proiettavo in Umberto U. per ragionare su una questione cruciale: la creazione di una classe dirigente adeguata a una sensibilità nuova del mondo e in grado di capire l’urgenza di rifiutare l’eredità dei propri padri, l’impostura della loro salute, bontà e bellezza”.

Ed è qui che nel lettore spunta il sospetto che l’epoca della politica che il romanzo racconta non sia passata, ma sia rimasta sopita per ripresentarsi adesso, un periodo in cui confluiscono due fenomeni omologhi e connessi: da un lato la nostalgia di una ampia parte della classe politica verso forme appartenute al passato, il continuo richiamo ad antiche radici, ad identità originarie, generate tuttavia in tempi (il XIX e i primi decenni del XX secolo) pressoché preistorici rispetto al presente; dall’altro, a fronte della necessità percepita da tutti di una rigenerazione del ceto politico, la riconversione di quest’ultimo verso quelle forme antiche di partecipazione e di militanza, presentate però come nuove, piuttosto che l’esplorazione di modalità altre, per di più sperimentate già in quasi tutte le grandi democrazie occidentali.

Il problema che Anemia palesa, nell’appassionare al vampirizzarsi del giovane funzionario, è l’evidenza dell’inadeguatezza del ceto politico rispetto alla società. Quest’ultima sembra essere molto più evoluta e articolata – nonostante evidenti sofferenze – di quanto non lo sia la classe politica, la quale dal rinnovamento traumatico e forzato dei primi anni Novanta sembra aver ricavato solo una nuova dimensione completamente incastonata dentro i media, estranea alla crudezza comunitaria del territorio, all’eticità della prossimità civile. L’idea che ne deriva è che la politica italiana al tempo di tangentopoli e di mani pulite non abbia colto l’occasione per liberarsi delle ideologie che avevano segnato il Novecento, non abbia approfittato dell’enorme opportunità che le si presentava di modernizzare le forme del proprio agire e i metodi del proprio pensare. L’idea è che quei primi anni Novanta siano stati vissuti in modi profondamente differenti dalla cittadinanza e dalla classe politica: la prima la ha interiorizzata come catarsi purificatoria, la seconda la ha sublimata come sospensione, come lungo oblio. E mentre per la prima il risultato naturale di quella catarsi si concretizza nella determinazione, laica e non ideologica, di esserci e di partecipare, di incontrarsi sotto la spinta etica di valori e di necessità (desideri e bisogni) condivise, per il ceto politico pare prioritario il recupero identitario di forme e di modelli organizzativi fondati su una propria supremazia sulla società civile. Due spinte verso direzioni opposte che determinano un’aperta crasi fra l’idea della società e della politica che la maggior parte delle persone hanno e l’idea che di esse ha il ceto politico, fra l’abilità alla post-modernità acquisita dalla gran parte della cittadinanza e quella non acquisita (testimoniata emblematicamente dall’arretratezza di tutti gli apparati dello stato e dall’inadeguatezza alle relazioni con la popolazione) dalla classe dirigente politica.

Sembra allora che per la politica l’epoca della politica in cui fu scritto Anemia si ripresenti oggi e si ripresenti come se nel frattempo non fosse accaduto nulla, mentre per i cittadini la questione è altrove, in un tempo trascorso che ha dato luogo all’oggi.

Così la catastrofe di quella frase bellissima: “la creazione di una classe dirigente adeguata a una sensibilità nuova del mondo”. 


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