Un po’ di chiarezza sulla leggenda della rivoluzione islandese

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sabato 31 dicembre 2011

La storia dell'Islanda che “sconfigge l'economia globale” circola da mesi. Idealisti e indignados sia di destra che di sinistra l'hanno elevata ad emblema della ribellione popolare per dimostrare a noi onesti cittadini oppressi dal debito che vincere contro presunti complotti di altrettanto presunti “poteri forti”, “governi occulti”, e chi più ne ha più ne metta, si può.

Tuttavia, nell'epoca di internet e dell'informazione in tempo reale, praticamente nessuno si è preoccupato di verificare le fonti, limitandosi ad accettare acriticamente quanto veniva diffuso su Facebook o altri canali alternativi. Se qualcuno si fosse degnato di fare una ricerca con il pc nella sua cameretta, senza dar retta a questa o quella chimera, si sarebbe reso conto da solo che la sproporzione tra entusiaste dichiarazioni e realtà sul campo si dimostra massima.

Questo articolo sul sito Approfondendo.it analizza la vicenda islandese punto per punto, spiegando perché quanto viene propagandato dalla controinformazione italiana non sia altro che fumo negli occhi. Il testo risponde fondamentalmente a queste tre domande: cosa c'è di vero nel caso islandese, cosa è veramente successo e se l'esperienza islandese possa essere trasposta nella realtà italiana.

Una premessa: qui mi sono limitato a sintetizzare questo articolo, ma sulla rete ci sono molti altri contributi che approfondiscono la vicenda islandese. Mesi fa, io stesso avevo parlato della decisione di Regno Unito e Olanda di convenire l'Islanda in tribunale in caso di bocciatura del referendum popolare sul piano di rientro del debito (mentre tutti elogiavano tale scelta di “non pagare il debito”) e della disinformazione che anima slogan e "ricette per la crisi" proposti dai cosiddetti indignados. Ricevendo insulti e critiche, come prevedibile, o al più indifferenza.

È chiaro che svegliarsi da un sogno non è mai piacevole, ma chiudere gli occhi di fronte alla realtà non è cosa saggia. Finalmente sulla rete, in mezzo a tante approssimazioni, se non addirittura vere e proprie menzogne e falsità, cominciano ad elevarsi alcune voci decise a chiarezza.

Dunque, il caso Islanda.

1) Cosa (non) c'è di vero?

L'Islanda NON ha lasciato il FMI: se non ci credete guardate qui e qui;

L'Islanda NON ha espulso i rappresentanti del FMI: esaurito quest'anno il proprio compito di monitoraggio, della consueta durata di tre anni, sono tornati a casa;

L'Islanda NON ha rifiutato l'aituo del FMI: anzi, ha ricevuto un prestito da 1,63 miliardi di euro. Che sta rimborsando con gli interessi;

L'Islanda PAGHERA' il suo debito: anzi, i due debiti. Il primo è quello con il FMI di cui sopra; l'altro è quello delle tre banche del Paese, nazionalizzate dopo il crac del 2008. Tale debito sarà rimborsato in virtù di accordi tra il governo di Rejkjavik e quelli di Londra ed Amsterdam, in quanto i principali creditori sono enti finanziari inglesi e olandesi.

La leggenda del presunto rifiuto è frutto di un equivoco. È vero che due referendum popolari hanno sonoramente bocciato i piani di rimborso proposti dal governo, ma da qui a dire che l'Islanda non pagherà ce ne corre. I beni all'estero di proprietà dello Stato islandese sono stati congelati; oggi si pensa di metterli all'asta allo scopo di soddisfare i creditori.

In Islanda il popolo STA PAGANDO la crisi. È vero che i dirigenti delle banche coinvolte nella crisi del 2008 sono stati processati e condannati a pagare laute somme per contribuire a risanarle, ma è anche vero che negli ultimi tre anni il governo ha varato delle manovre draconiane (aumento delle tasse e dell'Iva, riduzione dei trasferimenti statali, ecc.) che stanno gravando su tutte le fasce della popolazione. Lo Stato sociale non è stato smantellato, come in Grecia, ma ridimensionato sì. Quando un Paese è in crisi, a pagare sono tutti, non solo i “cattivi”.

2) Cosa è successo veramente?
- La crisi islandese è stata diversa da quella dell'Europa continentale perché diverso è stato il modo di approcciarla. La mobilitazione popolare ha mandato un governo a casa e i banchieri alla sbarra, ma il risanamento non sarebbe mai stato possibile senza una gestione delle finanze pubbliche oculata e responsabile.

La classe dirigente ha elaborato una strategia d'intervento chiara e precisa (a differenza dei governi nostrani, che brancolano nel buio) e soprattutto realistica, avvalendosi sia dei propri strumenti che di quelli offerti dal FMI. È così stato possibile ridurre la spesa pubblica senza smantellare lo Stato sociale, come invece sta avvenendo nelle nostre latitudini.

- La ripresa islandese è stata favorita dal ritorno dell'economia alla produzione reale (idro-geotermia, pesca, estrazione e lavorazione di materie prime), a scapito dei voli pindarici della speculazione: in tre anni il comparto finanziario si è ridotto dell'80%.

- In ogni caso, le banche sono state nazionalizzate, trasferendo i loro debiti sul bilancio pubblico. Contrariamente a quanto diffuso sulla rete.

3) È possibile fare lo stesso in Italia?
No. Troppe differenze separano l'esperienza italiana da quella islandese:
L'Islanda non è nell'euro, per cui Rejkjavik è pienamente titolare della propria politica monetaria e non soffre delle restrizioni imposte da un organo come la BCE;

I debiti delle banche islandese sono di modesta entità: appena qualche milione di euro;

La nazionalizzazione è stata agevole e poco costosa perché ha interessato solo tre banche, peraltro dotate di cda trasparenti e di un azionariato facilmente individuabili;

- L'industria islandese è piccola e funzionante; quella italiana è grande e in crisi pluridecennale. Inoltre l'export islandese è basato su energia e risorse naturali; quello italiano sulla trasformazione, in larga parte con basso valore aggiunto, di prodotti importati;

In Islanda la spesa pubblica è efficiente e in ordine; in Italia è enorme e fuori controllo. In più, la classe politica islandese è trasparente; su quella italiana stendiamo un velo pietoso.

- Infine, l'Islanda è un Paese insulare e senza immigrazione; l'Italia è divisa e afflitta da pesanti disparità sociali e territoriali.

A complemento di quanto detto, questo è ciò che scrivevo due mesi fa:
"È vero che la protesta islandese ha portato alla caduta del governo, alla decisione di non pagare il debito, alla stesura di una nuova Costituzione via internet. Tuttavia, prima della crisi finanziaria del 2008 gli islandesi non erano mai scesi in strada a manifestare e nessun governo si era mai dimesso per palese inefficienza. 

Le proteste di piazza sono state un'esperienza del tutto inedita in un Paese che non vive le tensioni ideologiche che da decenni hanno reso il dibattito sociale in Italia (e in Occidente) un continuo scontro senza confronto. Da questo punto di vista, fino a tre anni fa l'Islanda è sempre stata un'isola felice: nessun politico andava in giro con la scorta; nessuna guardia giurata all'ingresso di una banca. E dove il dibattito è aperto l'informazione è trasparente, al punto che l'Islanda era al primo posto nel mondo nella classifica di Freedom House sulla libertà di stampa.

Per finire, stiamo parlando di un Paese da 320.000 abitanti: il meno popolato d'Europa, microstati esclusi. Questo fa si che il tessuto sociale sia piuttosto omogeneo, dagli interessi convergenti e poca conflittualità interna. Come mai potrebbe esserlo quello di nazioni con decine di milioni di cittadini.
L'esperienza islandese rappresenta un sincero e ammirevole esempio di

democrazia, ma qualunque comparazione tra la realtà islandese e quelle del resto del mondo, italiana compresa, è semplicemente assurdo e inopportuno."

La storia romanzata della "rivoluzione silenziosa", dunque, è fumo negli occhi. Rappresenta il nostro ingenuo desiderio di credere che al mondo un possa esistere un luogo, una sorta di immaginaria Utopia di Tommaso Moro in salsa moderna, capace di spezzare le catene di quell'economia globale di cui pochi comprendono i meccanismi ma di cui (quasi) tutti paghiamo le conseguenze.

Sognare va bene, illudersi no. Ma andate a spiegarlo a chi, sia pur in buona fede, continua a dire che dobbiamo fare come l'Islanda...


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