Un magistrato di nome Rocco (Seconda Parte)

par Danilo Rota
lunedì 27 agosto 2012

LEGGI LA PRIMA PARTE

L'innovativa attività antimafiosa del giudice Chinnici non si palesa solo nelle parole, ma soprattutto nei fatti. Nei poco più di 3 anni e mezzo in cui l’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo è retto da Chinnici si segnalano svolte epocali per l’antimafia:

1) vengono arrestati e condannati il fratello di Stefano Bontate (Giovanni), Rosario Spatola e altri boss di notevole calibro per associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga;

2) lo stesso Chinnici conduce personalmente (e instancabilmente) fino a pochi giorni prima di morire le indagini basate su un rapporto giudiziario redatto dalla Squadra Mobile e dal Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo e depositato presso la Procura di Palermo il 13 luglio 1982. Tale rapporto - scaturito dall’emergenza della seconda guerra di mafia - è di fondamentale importanza per la ricostruzione del fenomeno mafioso, poichè denuncia i crimini di ben 162 mafiosi (Corleonesi e non), tra cui i più importanti esponenti di vertice, come Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Giuseppe Calò, Antonino Geraci, Salvatore Montalto e Salvatore Buscemi (la maggior parte dei quali sino ad allora sconosciuti). Si tratta della prima grossa indagine che punta dritto all’ala corleonese e ai suoi numerosi omicidi volti a scalare i vertici dell’organizzazione mafiosa e a controllare gli imponenti traffici di droga.
Il rapporto giudiziario - denominato "dei 162" - avrebbe poi costituito l'ossatura del procedimento istruito dal pool di Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello Finuoli che avrebbe portato al celebre maxiprocesso. Tale rapporto comprende:

- le indagini in tema di associazione a delinquere anche finalizzata allo spaccio di droga;

- l'intera serie di omicidi avvenuta fra il 23 aprile 1981 (uccisione di Stefano Bontate) e il 17 aprile 1982 (uccisione di Corsino Salvatore), giustamente interpretati come espressione di una contrapposizione fra famiglie mafiose per ragioni egemoniche. Nel rapporto si profila che, dopo una tregua di circa 3 anni seguita all’omicidio di Giuseppe Di Cristina (30 maggio 1978), l’uccisione di Stefano Bontate (capo della famiglia di Santa Maria del Gesù) e - a brevissima distanza - quella di Salvatore Inzerillo avevano segnato l’inizio di una lunga serie di omicidi interpretata come la manifestazione di una faida tra famiglie mafiose, per contendersi la partecipazione ai traffici di droga. Sempre nel rapporto si evidenzia che un gruppo vicino ai Corleonesi si era opposto a un altro gruppo mafioso facente capo a Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo e ai loro alleati. In tale contesto le uccisioni di Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo vengono valutate come una rottura degli equilibri preesistenti fra le famiglie mafiose, in attuazione di un disegno egemonico della mafia vincente (i Corleonesi) in danno di quella perdente di Bontate e Inzerillo.

Il 17 agosto 1982, poco più di un mese dopo il deposito del rapporto, l’Ufficio diretto da Chinnici emette un mandato di cattura a carico di 87 persone - appartenenti sia all’ala "moderata" che a quella emergente (fra cui i latitanti Giuseppe, Salvatore e Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano e Salvatore Montalto) - per associazione per delinquere finalizzata al traffico di droga, per fatti commessi fino al 12 luglio 1982 (cioè un mese prima). Sempre nell’ambito del medesimo procedimento, nel 1983 Chinnici emette un ulteriore mandato di cattura per gli stessi indagati (più Antonino La Rosa, dunque nei confronti di 88 persone) e per gli stessi reati contestati fino al 18 gennaio di quell’anno.
 
Il 31 maggio 1983 Chinnici emette un terzo mandato di cattura per ben 125 persone legate ai clan dei perdenti e degli emergenti (tra cui gli stessi dei due precedenti, come i latitanti Michele Greco, Salvatore Greco, Giuseppe Greco, Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e il detenuto Salvatore Montalto), per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di droga, contestata sino al 5 maggio 1983 (cioè 26 giorni prima). E ancora, sempre nell’ambito della stessa inchiesta, Chinnici coordina un’operazione conclusasi con un quarto mandato di cattura emesso da Giovanni Falcone il 9 luglio 1983 (20 giorni prima dell’omicidio di Chinnici) a carico di 14 indagati (tra cui, i latitanti Michele e Salvatore Greco, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano). Tra i reati ipotizzati: tentato omicidio (di Salvatore Contorno) e omicidio (del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di 3 Carabinieri e dei boss mafiosi Alfio Ferlito, Stefano Bontate e Salvatore Inzerillo). Nell'ordinanza-sentenza contro Abbate Giovanni + 706 emessa dall’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo l'8 novembre 1985 (che avrebbe dato il via al maxiprocesso), si legge:

"E' estremamente significativo che la reazione mafiosa, poi sfociata nell'attentato contro il cons. Chinnici, sia maturata non appena questo ufficio ha emesso, il 9.7.1983, mandato di cattura contro i più autorevoli esponenti della mafia. Allora era stato dimostrato, con l'emissione del mandato di cattura suddetto, che erano stati esattamente individuati la matrice e i moventi di tanti efferati assassinii. Sotto questo aspetto, dunque, l'atroce fine del cons. Rocco Chinnici - del capo, cioè, di quell'ufficio che aveva emesso il mandato di cattura in questione e del magistrato che aveva impresso un decisivo impulso alle indagini sulla mafia - costituisce l'amarissima conferma della fondatezza dei risultati raggiunti e dell'attendibilità delle prove acquisite".

Le indagini sul rapporto "dei 162" avrebbero avuto un impulso decisivo solo dopo le dichiarazioni di Tommaso Buscetta il quale - oltre a confermarne la ricostruzione della situazione criminale mafiosa ivi operata - avrebbe fornito ulteriori decisivi elementi che avrebbero condotto alla scoperta dall’interno di questa organizzazione criminale, inchiodando alle loro responsabilità anche i cugini Salvo.
E' inoltre impressionante come la storia di questo rapporto giudiziario si sia intersecata con la condanna a morte di tante persone che vi avevano lavorato con impegno e professionalità: oltre a Rocco Chinnici, il Vice Questore Aggiunto di Polizia Antonino Cassarà e l'Agente di Polizia Roberto Antiochia (che hanno sottoscritto il rapporto e sarebbero stati trucidati a Palermo il 6 agosto 1985), i giudici istruttori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (che l'8 novembre 1985 avrebbero depositato la sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio per 475 imputati di mafia, grazie alla quale si sarebbe celebrato il maxi-processo. Tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992 sarebbero stati fatti saltare in aria). Un rapporto, dunque, cosparso dalla lunga scia di sangue di molti dei quali vi avevano lavorato. Anzi, al rapporto "dei 162" è indirettamente collegata anche l’uccisione del luogotenente di Giulio Andreotti in Sicilia, Salvo Lima (12 marzo 1992), caduto in disgrazia agli occhi di Cosa Nostra - a cui era stato vicino - per gli esiti negativi del maxi processo che si era concluso in Cassazione con la conferma di pesantissime condanne e con l’annullamento con rinvio di tante assoluzioni;


3) essendo Chinnici titolare, personalmente, di numerose inchieste delicate (tra cui il rapporto "dei 162"), intuisce – attraverso perizie balistiche comparative compiute sui bossoli e proiettili usati in occasione dei predetti fatti delittuosi – che esiste un unico filo conduttore tra gli omicidi “politico-mafiosi” dell’epoca (Michele Reina - segretario provinciale di Palermo della Democrazia Cristiana, 9 marzo 1979; Piersanti Mattarella - presidente della Regione Sicilia nelle fila della Democrazia Cristiana, 6 gennaio 1980; Pio La Torre - deputato del Partito Comunista, 30 aprile 1982; Carlo Alberto Dalla Chiesa - prefetto di Palermo, 3 settembre 1982) e l’inchiesta dei 162 sopra richiamata. Il tutto nell’ottica di una visione globale e unitaria dei suddetti delitti. Chinnici scopre che le armi utilizzate contro il generale Dalla Chiesa erano state adoperate in precedenza per gli altri omicidi e che gli assassinii di Bontate e Inzerillo, nonché il tentato omicidio di Salvatore Contorno, erano stati opera dei clan vincenti (Greco e Riina), che avevano così voluto eliminare i loro concorrenti nel traffico internazionale di droga. Chinnici capisce che tutti i sopra menzionati episodi criminosi presentano un’identica chiave di lettura e si inquadrano nella spietata guerra intrapresa contro le cosche Bontate, Inzerillo e Badalamenti. Per questa ragione vuole effettuare una maxi perizia balistica per verificare gli eventuali collegamenti fra gli omicidi "politici" avvenuti tutti nel giro di soli 3 anni e mezzo, sul presupposto che un unico filo conduttore leghi tali crimini a quelli di più evidente matrice mafiosa, in un intreccio di interessi convergenti. Chinnici è così convinto di questa tesi da ipotizzare la riunione in un solo, grande procedimento del rapporto "dei 162" e degli omicidi Dalla Chiesa e La Torre, così da poter dimostrare quell'unica matrice mafiosa comune agli omicidi "politici" e a quelli tipicamente mafiosi, entrambi rispondenti a un unico disegno criminoso e caratterizzati da analoghe modalità esecutive;

4) nell’ambito delle indagini relative alla seconda guerra di mafia emerge il coinvolgimento dei cugini Nino e Ignazio Salvo; pertanto entrambi vengono indiziati di associazione mafiosa. Il loro coinvolgimento nelle vicende connesse alla guerra di mafia degli anni ’80 è ancorato a una telefonata intercettata pochi giorni dopo l’omicidio di Salvatore Inzerillo nel corso della quale i predetti - tramite il parente Ignazio Lo Presti, legati allo schieramento dei "moderati" - implorano Tommaso Buscetta di ritornare a Palermo dal Brasile per tentare la riappacificazione delle famiglie e cercare di arginare la guerra di mafia in corso;

5) le istruttorie concernenti i più gravi fatti criminosi verificatisi a Palermo hanno ricevuto un incalzante e decisivo impulso tradottosi in risultati concreti, fra cui l’emissione di numerose ordinanze di rinvio a giudizio (nonostante la Procura chiedesse il proscioglimento) e di mandati di cattura a carico di alcuni personaggi di spicco di Cosa Nostra, fra cui quelli nei confronti degli esponenti di vertice (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Salvatore Montalto);


6) sotto la direzione di Rocco Chinnici, non solo vengono istruiti per la prima volta gravi procedimenti penali contro mafiosi di elevato spessore criminale, ma - proprio negli ultimi mesi di vita del giudice - sono sfociati in severe sentenze di condanna emesse dal Tribunale e dalla Corte d’Assise di Palermo. Tra i mafiosi condannati per associazione a delinquere nel traffico di droga (novità sconvolgente per personaggi che avevano prosperato in lunghi anni di impunità), Giovanni Bontate (fratello di Stefano), La Mattina Nunzio e Spatola Rosario, i cui mandati di cattura erano stati emessi dall'Ufficio di Chinnici;

7) Chinnici partecipa continuamente a convegni, incontri e dibattiti sul tema della legalità anche nelle scuole, trasmettendo ai giovani il suo straordinario impegno civile. In un'intervista rilasciata alla rivista palermitana "Segno" nel 1981, alla domanda "Che fare?" Chinnici risponde:

"La mia fiducia è nelle nuove generazioni. Nel fatto che i giovani – credenti, non credenti, della sinistra, democratici, di nessuna militanza politica – si ribellano, respingono il potere della mafia. Questa è la grande speranza che sta germogliando. I giovani devono insorgere contro la mafia e la sua droga, con tutte le forze e il coraggio che hanno. Bisogna avere la consapevolezza e il coraggio di mobilitare tutte le forze vive e responsabili della società". Per poi aggiungere: "Noi abbiamo il dovere di reagire in tutti i modi come componenti di questa società. E ciò in particolare devono farlo gli educatori nelle scuole, i padri di famiglia, i politici, i sacerdoti,...".

Ciò non è certo ben visto da Cosa Nostra, considerando che tali iniziative rappresentano l'inaugurazione di un nuovo modo di propaganda antimafia.

Tuttavia Chinnici e il suo limitato gruppo di magistrati antimafia devono affrontare non poche difficoltà:


1) l'atteggiamento blando della Procura palermitana. In un grosso processo di mafia istruito da Chinnici, la Procura chiede il proscioglimento per insufficienza di prove, ma Chinnici rinvia ugualmente a giudizio tutti gli imputati. Al dibattimento il Pm conferma le sue richieste assolutorie e la Corte le accoglie. In un altro grosso processo di mafia, stesso copione: Chinnici rinvia a giudizio gli imputati, in dibattimento la Procura chiede l’assoluzione per insufficienza di prove. Quella volta, però, la Corte condanna, anche se solo per ricettazione di targa rubata;

2) un senso di sfiducia si determina dopo l'uccisione di Boris Giuliano, capo della Squadra Mobile di Palermo (21 luglio 1979). Costui aveva condotto una strenua battaglia contro i mafiosi e li aveva denunciati per una grossa rapina consumata ai danni della Cassa di Risparmio nel 1979. Un giorno di quello stesso anno Giuliano aveva telefonato, preoccupato, a Chinnici: aveva avuto sentore che a due grossi killer mafiosi estremamente pericolosi si voleva concedere la scarcerazione. Allora Chinnici aveva parlato con il magistrato istruttore del processo, il quale - nonostante avesse una richiesta di scarcerazione (per mancanza di indizi) da parte della Procura - aveva promesso a Chinnici che li avrebbe tenuti in carcere. Peccato che - utilizzando una cartella clinica del carcere - dopo una settimana sarebbero stati scarcerati in libertà provvisoria, anche se ciò sarebbe dovuto essere impossibile, di fronte a un’imputazione di “rapina pluriaggravata”. Per questo Chinnici aveva giudicato quest'atto un fatto "estremamente grave che generò perplessità e sfiducia negli organi di polizia";

3) quando il Procuratore Capo di Palermo Gaetano Costa (da solo, contro i suoi sostituti procuratori) firma e convalida 55 arresti a seguito di un'inchiesta su mafia, banche, appalti, attività economiche e droga, la conseguenza è un’eco grandissima. La stampa pubblicizza all’esterno un fatto interno alla Procura, ovvero la diversità di vedute tra Costa e i suoi sostituti. Costa avrebbe voluto dare un volto nuovo alla Procura, rendendone più democratica la gestione: da qui la sua decisione di convocare tutti i magistrati in un’assemblea, dove poi si sarebbero verificati i contrasti. Sorti perchè:

- i sostituti pensano che la mafia sia un’associazione per delinquere qualsiasi, per colpire la quale occorre provare singoli fatti delittuosi;

- Costa invece ritiene che la mafia sia già di per sé un’associazione per delinquere, per cui è sufficiente provare collegamenti e legami tra diversi soggetti per convalidare il loro arresto.

Costa è un magistrato equilibrato, molto prudente, pacato, non certo avventato o emotivo. Compie quell’atto (la convalida degli arresti) dopo aver meditato ed essersi reso conto che andava fatto. Punto. Ma per Palermo è un fatto inedito: è infatti la prima volta che i sostituti mostrino remore e perplessità in un processo di rilevante gravità. Era successo spesso in processi "semplici" (il sostituto non convalida e l’indagato viene scarcerato), mai in procedimenti così importanti e delicati.

Chinnici è consapevole che una tale presa di posizione (convalidare - in solitudine - numerosi mandati di cattura) e la sua pubblicizzazione sui giornali avrebbe comportato serie difficoltà anche al suo ufficio, poiché tutti si sarebbero aspettati la scarcerazione. Invece Falcone - confermando l'impostazione del Procuratore Costa - emette i mandati di cattura. Da quel momento Chinnici riceve la prima telefonata di minacce a casa, poiché si diffonde la voce - infondata - che è stato Chinnici ad aver imposto a Falcone l'emissione dei mandati di cattura. Sono i primi giorni di giugno del 1980. Chinnici viene svegliato di notte: “che intenzioni ha Lei con i processi di Palermo?”. Da qui altre telefonate. Una – ricevuta a casa e ricordata da Chinnici come “la più brutta” – dice: “il nostro tribunale ha deciso che Lei deve morire e l’ammazzeremo comunque, dovunque Lei si trovi”. Quando Chinnici va da Costa (di cui era amico) per riferirgli il contenuto di quella telefonata, il Procuratore risponde: "in questa città (Palermo, nda) non c’è da fidarsi di nessuno, non si può più vivere". Chinnici riceve altre minacce, anche per iscritto, dall’America: in una (ricevuta per cartolina postale alla fine del 1981) vengono elencate le beatitudini, del tipo:"beato chi ti farà del male, beato chi parlerà sempre male di te, beato chi ti distruggerà, …". L'uccisione di Costa (6 agosto 1980) traumatizza Chinnici, il quale rimane per 3 giorni sotto shock, nonostante a Palermo si vedano ogni giorno molti morti: Costa era a Palermo da soli 2 anni e viene ucciso quando – presa conoscenza dell’ambiente palermitano – inizia a intraprendere un’azione antimafiosa molto efficace. E’ stato insomma tolto di mezzo per aver voluto compiere il suo dovere di magistrato;

4) nel settembre/ottobre 1980 - quindi poco dopo l'assassinio di Gaetano Costa - quasi tutti i magistrati della Procura stilano un documento in cui si parla di "enfatizzazione delle misure di sicurezza a garanzia dei magistrati" (cioè le scorte) e di "mitizzazione della mafia". In esso si critica anche l’Ufficio Istruzione retto da Chinnici, per l'assegnazione dei processi solo a determinati magistrati. Anche se tale documento sarebbe dovuto essere trasmesso al Csm, non solo ciò non avviene, ma non se ne sa più nulla. Si verifica un terribile scontro in Procura tra 2/3 sostituti procuratori e tutti gli altri (firmatari del documento). Mentre i servitori fedeli dello Stato perdono la vita e rischiano ogni giorno la pelle, quelle rivendicazioni appaiono sinistre, assurde o - per usare i termini di Chinnici -"retoriche e piene di enfasi";

5) molti non vogliono che Costa prima, Chinnici poi realizzino approfondite indagini bancarie (conti correnti, assegni, libretti di risparmio,…). Il Procuratore Costa – fino a pochi mesi prima di morire - aveva insistito nel chiedere alla Guardia di Finanza indagini approfondite su appalti e attività economiche di Cosa Nostra, ma i finanzieri non le finivano mai. Allora Chinnici ha dovuto agire personalmente, in solitudine: è lui che acquisisce tutta la documentazione, convoca i direttori di banca con i documenti che gli servono, sequestra ed emana ordini di esibizione;

6) il rapporto tra l'Ufficio Istruzione di Chinnici e la Procura di Palermo è difficile. Addirittura, all’inizio, non c'era stata nessuna collaborazione, dal momento che la Procura continuava a ritenere i processi istruiti da Chinnici “vacanti”, cioè senza elementi e basati sul nulla. Solo in un secondo momento - quando in Procura cominciano a vedere che i processi voluti da Chinnici e dalla sua squadra non sono “vuoti” e che i magistrati hanno il dovere di sfruttare al massimo gli elementi probatori disponibili - allora sarebbe iniziata una valida collaborazione, ma solo con pochi e determinati sostituti procuratori. Un piccolo passo in avanti, se si pensa che prima i Pm erano soliti chiedere il proscioglimento per insufficienza di prove e interrogare gli indagati con mandato di comparizione (non di cattura);

7) i mafiosi conoscono in anticipo le indagini del gruppo di Chinnici, ancor prima dell'emissione dei mandati di cattura. Ciò grazie a canali di informazione su cui l'organizzazione criminale può contare, tra cui le collusioni di alcuni funzionari e impiegati del Palazzo di Giustizia di Palermo. I massimi vertici di Cosa Nostra sono persino al corrente dei conflitti tra la Procura e l'Ufficio Istruzione circa l'emissione dei mandati di cattura;

8) Chinnici è costretto a lavorare in una situazione di estremo disagio, a tal punto da non sapere a chi affidare i processi di mafia. Di fatto - come lui stesso ammette - può contare sull'appoggio di soli 2, 3, 4 giudici (tra i quali Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), gli unici ritenuti validi nel fare a fondo il proprio dovere. Non avendo quindi a disposizione un numero congruo di magistrati per gestire l'enorme mole di lavoro (ne sarebbero serviti almeno una dozzina), Chinnici è costretto ad affidare a sè medesimo la gestione dei procedimenti antimafia. L'Ufficio Istruzione di Palermo conta solo sulla spiccata professionalità di alcuni magistrati, in un clima di quasi generale indifferenza, il che determina una sensazione di isolamento e una pericolosa sovraesposizione. Le numerose minacce di morte ricevute da Chinnici e da alcuni colleghi lo dimostrano.

Ora, Cosa Nostra - per la prima volta - ha paura e teme per la sua stessa sopravvivenza: quel giudice, Rocco Chinnici, ha rotto drasticamente gli equilibri che per decenni avevano garantito ai boss l'impunità. E' così che le varie faide interne all'organizzazione criminale cessano di fronte al nemico comune: sia i Corleonesi usciti vincitori dalla seconda guerra di mafia, sia i "moderati" sconfitti hanno un imminente interesse a eliminare quel giudice ficcanaso. Si realizza una perfetta comunione di intenti all'interno di Cosa Nostra: in gioco c'è la vita dell'intera organizzazione mafiosa. E' pur vero che la maggiore responsabilità debba essere attribuita ai Corleonesi, visto che nel luglio del 1983 sono loro a controllare l'intera Commissione Provinciale di Palermo (alla quale compete in via collegiale la sentenza di morte).
Nonostante la mafia abbia tentato di "avvicinare" Chinnici per indurlo a più miti consigli, egli si rivela solidamente incorruttibile e inavvicinabile, pertanto l'unico modo che Cosa Nostra ha per fermarlo è ucciderlo. In tal modo i mafiosi avrebbero ottenuto più risultati:

- eliminare un magistrato che finalmente aveva voluto combattere la mafia con incisività e determinazione;

- vendicarsi delle numerose indagini compiute e prevenirne altre;

- lanciare un avvertimento a tutti gli altri giudici che ne avessero proseguito l'opera (Falcone e Borsellino in testa, già all'epoca minacciati di morte);

- stroncare ogni tentativo delle Istituzioni di reprimere duramente gli interessi della mafia (tra cui il traffico di droga);

- inaugurare una strategia terroristica finalizzata a creare un clima diffuso di intimidazione e a scoraggiare qualsiasi ulteriore azione di contrasto.

Non è allora un caso se già a partire dall'estate 1982 (cioè un anno prima della strage) la mafia avesse iniziato a progettare l'omicidio di Chinnici, servendosi anche di frequenti pedinamenti ai suoi danni. E non è un caso se pochi giorni prima di morire Chinnici abbia detto: "C’è la mafia che spara, la mafia che traffica in droga e ricicla soldi sporchi, c’è l’alta finanza legata al potere politico. Stiamo lavorando per arrivare ai centri di potere più elevati".

Ma perchè non ucciderlo sparando colpi di arma da fuoco come era sempre stato fatto fino ad allora? Perchè un atto terroristico di tale portata?
Si tratta di una scelta inevitabile per Cosa nostra, dal momento che l’apparato di sicurezza messo in campo per salvaguardare Chinnici è tale da impedire un avvicinamento degli assassini. Ne sarebbe quasi certamente nato un conflitto a fuoco con i membri della scorta. Troppo rischioso. Si opta così per l’autobomba, anche per ottenere un effetto intimidatorio maggiore. E' verosimile che la tecnica sia stata “importata” dalla camorra napoletana, con cui i mafiosi palermitani avevano rapporti: Vincenzo Casillo, il braccio destro del boss Raffaele Cutolo, era stato ucciso il 29 gennaio 1983 proprio con un’autobomba a Roma mentre era latitante.

I mafiosi usano un telecomando a vista, azionato da un camion parcheggiato sul lato della via Pipitone opposto a quello ove si trova l’abitazione di Chinnici e la Fiat 126 imbottita di tritolo. Il furgone non solo dista a 87 metri dal portone di casa Chinnici, ma da esso si ha un’ottima visibilità sull’intera via Pipitone. Il camion viene completamente ignorato dai carabinieri di scorta, concentrati sulle immediate vicinanze del portone di casa e sulla figura del magistrato. Si presta attenzione (ed è inevitabile che così sia, data l’assenza di precedenti diversi) all’arrivo di auto o moto che, avvicinatisi a Chinnici, avrebbero potuto far fuoco. Come avrebbe poi rivelato il maresciallo del Nucleo Radiomobile dei Carabinieri di Palermo, Ignazio Pecoraro, che la mattina della stage supporta la scorta: "Ci aspettavamo di tutto tranne che un fatto simile ; cioè si aspettava la classica fucilata , la raffica. Non pensavamo mai a ‘na cosa simile. Il servizio nostro era volto a prevenire la fucilata , la raffica di mitra, la macchina che passa e spara . Siccome non si era mai verificato fino ad allora il fatto di avere già la macchina là ferma, carica, con la bomba sopra… per noi era molto improbabile".
 
Niente bonifiche, niente controlli alle vetture parcheggiate, niente divieti di sosta: solo il blocco del traffico nel momento in cui Chinnici è solito uscire di casa. Peccato che Giovanni Brusca parcheggi la 126 verde di fronte la casa di Chinnici prima delle 7 di mattina (più di un’ora prima che il magistrato esca per recarsi al lavoro) e che allo stesso tempo Giovan Battista Ferrante (boss del mandamento di San Lorenzo) abbia parcheggiato il camion lì appresso. Il pulsante di attivazione viene premuto da un fedelissimo di Salvatore Riina, Antonino Madonia, figlio del capo-mandamento di Resuttana, nel cui territorio è compresa la via Pipitone. E’ lo stesso Madonia che (arrestato il 10 gennaio 1971 grazie a un mandato di cattura di Chinnici per detenzione abusiva di esplosivo, associazione per delinquere e strage) la sera del 5 dicembre 1982 -quasi 8 mesi prima di premere il fatidico pulsante - si trovava all’interno dello stabile ove risiedeva la famiglia Chinnici. Il giudice, subito informato da un amico, si era molto preoccupato.

Non è certo un caso se tra i condannati in via definitiva per la morte di Chinnici ci siano i boss su cui il giudice aveva indagato e verso i quali aveva emesso numerosi mandati di cattura: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Stefano Ganci, Calogero Ganci, Salvatore Buscemi, Antonino Geraci, Bernardo Brusca, Giovanni Brusca, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Antonino Madonia, Salvatore Montalto, Giuseppe Montalto, Vincenzo Galatolo, Francesco Paolo Anzelmo e Giovan Battista Ferrante.
 
   Il maresciallo Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi

Una delle molte, grandi lezioni che il giudice Chinnici ci ha lasciato è la determinazione nel proseguire sempre le giuste battaglie e la lotta alla criminalità. Pur perfettamente consapevole degli enormi rischi cui andava incontro (basta leggere il suo diario personale per rendersene conto), non ha mai arretrato, non si è mai lasciato corrompere, proseguendo instancabilmente il suo lavoro di onesto, preparato e tenace uomo delle Istituzioni, fino al sacrificio della propria stessa vita. In una delle sue ultime interviste aveva detto: 
"La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e - anche se cammino con la scorta - so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce nè a me, nè agli altri giudici di continuare a lavorare. I magistrati dell'Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo, battagliero. Gente con i piedi per terra, attenta, accurata".
Come un magistrato di nome Rocco.
 
In primo piano - da sinistra a destra - Antonino Cassarà, Giovanni Falcone e Rocco Chinnici.
Tutti assassinati da Cosa Nostra tra il 1983 e il 1992.

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