Un lavoro dopo il carcere: si può ’Ri.usci.re’
par Ilaria Raffaele
lunedì 26 marzo 2012
Cosa accomuna una donna nigeriana che di mestiere lavora in un'industria di confetture, un'altra impiegata in un ristorante, un folignate occupato in una ditta di materiali in polistirolo e un bresciano che fa da receptionist in un hotel? Due cose, che visti i presupposti non sono poche. La prima è che tutti e quattro sono ex detenuti. La seconda è un nome: Luca Verdolini, della cooperativa Gulliver, promotrice del progetto 'Ri.usci.re' a cui tutti e quattro partecipano.
"È l'unica mosca bianca nel panorama dei progetti per reintegrare gli ex detenuti — dice Massimo, ex pilota di aereo, bresciano di nascita, che adesso lavora in un hotel del centro di Perugia —. Gli altri fanno solo parole, Luca invece dà un aiuto concreto".
Sono quattro storie diverse quelle che raccontano i protagonisti. Le due donne, ad esempio, sono emigrate dalla Nigeria rispettivamente diciassette e diciannove anni fa. Alle spalle hanno situazioni di disagio, ma entrambe hanno trovato in carcere la possibilità di riscattarsi.
"In questo momento di crisi è difficile trovare un lavoro, specie se si esce da un penitenziario e si è etichettati come delinquenti — dice Maria (la chiameremo con questo nome visto che preferisce mantenere l'anonimato) —. Io ho 37 anni e tre figli, come li potrei mantenere senza un lavoro?". Anche Massimiliano, folignate di 43 anni "come non se ne trovano più" si ritiene fortunato di avere ottenuto la borsa lavoro di 'Ri.usci.re' proprio adesso: "Per cinque mesi ho la possibilità di farmi conoscere, poi speriamo che alla scadenza mi assumano. È un buon progetto sia per me che per l'azienda che mi ospita, perché forma un nuovo dipendente senza alcun costo".
Il progetto è lodato da tutti, ex detenuti e datori di lavoro. Come Gabriele, che ha accolto Massimo e si dice fiero di averlo fatto: "Superare i pregiudizi è difficile, ma alla fine ho avuto ragione. Questa esperienza ti dà molto in cambio del tuo coinvolgimento. Tu dai 1 in rispetto alla persona con cui ti trovi ad avere a che fare e ricevi 10, perché poi diventi un punto di riferimento e si crea un rapporto umano speciale". Come dice Gabriele, "non si finisce in galera per una malattia, ma perché non si ha potuto apprezzare determinati valori". Un errore, per quanto tragico, non può rovinare una vita.
È d'accordo con lui Luca, datore di lavoro di Miriam (anche lei vuole restare nell'anonimato): "Il nostro sistema giudiziario è estremamente ingiusto. Io cerco di dare una mano perché in futuro mi potrei trovare nelle stesse condizioni". Delle brutte situazioni, che non coinvolgono soltanto la persona che ha sbagliato, ma anche i suoi familiari.
Miriam ha due figli, una bambina che vive ancora in Nigeria e aspetta il ricongiungimento familiare, e un ragazzo di 15 anni che vive in Italia e qui frequenta la scuola: "Lui ha vissuto male la mia detenzione, anche se ho scontato un periodo ai domiciliari — dice Miriam —. A scuola era stato additato come il figlio della delinquente, ora per fortuna le cose vanno meglio: io lavoro e lui è diventato più autonomo, e cambiando scuola si è trovato meglio". Però Miriam per il suo futuro non pensa a sé stessa, ma agli altri: "Quando tutto sarà finito voglio che la mia casa diventi un luogo di accoglienza per le persone in difficoltà, come lo sono stata io".