Ucraina: la chiave di volta della guerra

par Fabio Della Pergola
lunedì 30 maggio 2022

La storia insegna che sempre, anche durante i conflitti più cruenti, è esistita fra i contendenti quell’area grigia dove si muovevano due tipi di personaggi (che talvolta coincidevano nello stesso individuo con cappello e trench): da una parte le spie (domanda: perché inglesi e americani erano sicuri che Putin avrebbe dato l’ordine di invadere l’Ucraina, mentre tutti gli europei cascavano dalle nuvole? Forse qualcuno ha coltivato fonti affidabili e qualcun altro no?). Dall’altra quei diplomatici di seconda o terza fila, poco appariscenti, ma assai ben introdotti, capaci di tenere aperta la porta del dialogo anche quando ogni contatto sembra essere spezzato irrimediabilmente.

Attraverso questa porta passano le informazioni e le comunicazioni, assolutamente fuori dalla portata del grande pubblico, che solo gli storici riescono a individuare (e non sempre) dopo che gli archivi vengono desecretati. Cioè dopo decenni dai fatti in questione, quando a nessuno, eccezion fatta per gli studiosi, interessa più cosa successe e cosa no in un certo momento della storia.

Una domanda che chiunque si sia occupato di storia recente si è posto, ad esempio, riguarda il mancato uso di un’atomica sulla capitale nordvietnamita da parte americana. Gli Stati Uniti hanno preferito – piuttosto che usare la risolutiva arma nucleare su Hanoi – il lungo conflitto che è costato comunque fra uno e tre milioni di vittime vietnamite (a seconda delle fonti) oltre ai circa 60mila statunitensi e a un’infinità di milioni di dollari dei contribuenti americani.

Per poi finire con la prima e più scottante sconfitta militare della loro storia.

E non è che non avessero provato, a vincere. L’operazione Linebacker fu una campagna di massicci bombardamenti sul Vietnam del Nord, lanciata nel maggio del 1972 dal presidente Richard Nixon e durata fino all’ottobre dello stesso anno. Cinque mesi di bombardamenti devastanti, ma non abbastanza da piegare la resistenza vietnamita. Perché non usare l’atomica per ottenere un risultato definitivo in molto meno tempo?

Una risposta la diede un noto politico democristiano qualche tempo fa: «Perché sarebbe stato un crimine contro l’umanità, l’opinione pubblica interna non lo avrebbe consentito e il presidente che lo avesse autorizzato sarebbe stato messo in stato di impeachment e sarebbe finito in galera. È lo stesso motivo per cui armi nucleari non sono state usate né in Afghanistan né in Iraq. Ci sono nella storia e nella vita dei tabù che è bene non violare, delle linee di confine che è bene non attraversare, dei precedenti che è bene non stabilire».

La risposta è forse un po’ edulcorata, i crimini contro l’umanità sono stati abbondantemente compiuti anche senza usare l’atomica, ma la sostanza è concreta: c’è un tabù reale sull’uso dell’atomica come arma utilizzabile in un conflitto. Perché non vanno costituiti dei precedenti. A cui poi potrebbero aggiungersi dei "seguenti" da parte di altri.

Così quella linea di confine non fu superata benché l’idea di farlo fosse stata proposta già nel 1954 dall’allora segretario di Stato americano John Foster Dulles, quando a combattere in Indocina erano ancora i francesi.

Oggi la questione nucleare si è riproposta brutalmente quando la Russia ha invaso l’Ucraina.

Uno degli opinionisti di successo nel nostro paese, Alessandro Orsini, ha ripetuto a più riprese che Vladimir Putin avrebbe usato l’arma nucleare se fosse stato messo all’angolo: «Se porremo Putin in una condizione disperata, certamente userà la bomba atomica». La conclusione del suo discorso è stata conseguente, per quanto discutibile, con le premesse: «Facciamo vincere la guerra a Putin». Solo che non ci ha detto che cosa significa "vincere" per Putin. Forse per lui significava prendere l'Ucraina e consegnarla, senza battere ciglio, alla prevedibile bielorussizzazione, con tutto quello che è facile immaginare. O forse no, ma senza questa precisazione si tratta solo di aria fritta.

Oggi, a tre mesi dall’inizio del conflitto, possiamo dire due sole cose certe: la Russia ha tentato di occupare la capitale ucraina con l’intento di decapitarne la dirigenza politica e sostituirla con una più “empatica” con Mosca. La motivazione dichiarata era la “denazificazione” del paese, termine che va tradotto con “de-ucrainizzazione" dell’Ucraina; eliminare l’esistenza dell’identità nazionale ucraina per far rientrare il paese nell’area ampia del Russkiy mir, il mondo russo. Putin è stato chiaro su questo: l’Ucraina di fatto non è mai esistita, è stata solo un’invenzione leninista, secondo lui.

L’operazione è vistosamente fallita e la strategia è stata reimpostata. E questa è la seconda cosa certa, al momento. L’obiettivo non è più la conquista di Kiev, ma quella dell’intero Donbass. Cioè delle due province di Lugansk, la cui occupazione (o “liberazione” a seconda dei punti di vista) è stata quasi completata, e di Doneck che è, a oggi, invece occupata (o “liberata”) solo per metà. È qui che sono in corso i combattimenti più duri. Ed è alle pesanti perdite del suo esercito che il presidente Zelensky si è riferito, lasciando intendere che non avrebbero potuto resistere a lungo.

Torna quindi la domanda: quale sarebbe la “condizione disperata” in cui Putin potrebbe usare anche l’atomica?

Non il fallimento dell’obiettivo primario, ormai è certo. L’atomica su Kiev non è stata sganciata e i russi sembrano aver accettato il fatto con una qualche nonchalance. E l’obiettivo secondario, la conquista del Donbass non sembra trovare ostacoli insuperabili. Per dirsela tutta, al nord i russi le hanno prese di brutto, a est le stanno prendendo gli ucraini. Possiamo quindi convenire che l’atomica non è più un’opzione sul tavolo? Crediamo di sì, e naturalmente speriamo di non sbagliare.

A meno che l’obiettivo di Putin non sia il solo Donbass, quanto piuttosto tutta la costa meridionale dell’Ucraina fino a comprendere la storica città di Odessa e la fascia di territorio che collega il Donbass con la Transnistria.

I due obiettivi costituiscono l’ipotesi minima (il Donbass) o quella massima (Donbass più la costa meridionale, Odessa compresa) in discussione al Cremlino, secondo Dimitri Suslov, direttore del Centro studi europei e internazionali presso la Scuola superiore di Economia di Mosca. 

Le colombe si accontenterebbero della prima, i falchi vorrebbero perseguire la seconda.

L’ipotesi minima sembra a portata di mano anche perché la lentezza con cui il presidente Biden ha aperto alla possibilità (ancora in discussione) di fornire agli ucraini armi in grado di fermare l’avanzata russa (lanciarazzi a lungo raggio e altra artiglieria pesante), fa supporre che l’Occidente abbia già maturato la decisione di “concedere” a Putin il raggiungimento dell'obiettivo minore. Evitando così, accuratamente, di stringerlo nell'angolo dove potrebbe diventare pericoloso.

Sono congetture non verificabili al momento, ce lo diranno gli storici fra trenta o quarant’anni casomai, ma l’ipotesi che una diplomazia segreta si muova in quell’area grigia dove ci si accorda su cose non confessabili alla pubblica opinione non è poi così campata in aria.

Le cose cambiano drasticamente se invece si parla dell’“ipotesi massima” ventilata dai falchi.

L’occupazione dell’intera costa meridionale sul Mar Nero, e del principale porto ucraino, quello di Odessa, metterebbe in crisi gravissima non solo l’economia ucraina, già devastata dalla guerra e defraudata di buona parte dell'industrioso Donbass, ma, si dice, l’intero sistema di approvvigionamenti alimentari di buona parte del terzo mondo.

La conseguenza? Un crisi migratoria senza precedenti che si riverserebbe principalmente in Europa, per lo più attraverso Italia e Spagna, che si andrebbe a sommare al risentimento di tutti i paesi dell'est europeo per l'incapacità occidentale di difendere seriamente l'Ucraina dall'orso russo che minaccerebbe anche loro.

Mettendo i paesi europei uno contro l'altro Putin otterrebbe il risultato insperato di far guerra all'Unione europea senza dover sparare nemmeno un colpo. Che poi era quello che voleva sul serio dando inizio all'invasione: far litigare i leader europei fra di loro.

Putin, attraverso il suo sodale bielorusso, Lukashenko, ha già dimostrato l’anno scorso di non farsi scrupoli nell’usare i migranti come arma di destabilizzazione dell’Unione europea, ben conoscendo i contrasti fra i leader (e le opinioni pubbliche) del vecchio continente in merito all’accoglienza. E destabilizzare l’Unione europea è cosa che Putin ha già cercato in tutti i modi di fare negli anni passati finanziando tutte le organizzazioni sovraniste – cioè antiunione – presenti fra le destre e fra le tante formazioni populiste o veterocomuniste europee.

In sintesi, se Putin perseguirà l’ipotesi minimale, l’Occidente farà digerire ai politici ucraini (con quanti e quali sconquassi interni al sistema politico ucraino ed europeo sarà tutto da vedere) la perdita del Donbass, della Crimea e della fascia costiera sul Mare d’Azov, compresa la città martire di Mariupol. Tutto sommato gran parte di quel territorio era già sotto controllo russo da anni e nessuno ha davvero voglia di impiccarsi per qualche chilometro in più o in meno di territorio ormai ampiamente devastato dalla guerra.

Ma se Putin vorrà Odessa, con l’intento di acquisire un’arma potente da giocare contro l’Unione europea (in attesa che Trump torni alla Casa Bianca fra due anni e da lì gli dia una mano a finire il lavoro iniziato nel 2016) la tensione potrebbe davvero raggiungere il livello più incandescente. L'eventuale battaglia di Odessa sarà perciò, con ogni probabilità, la vera chiave di volta del conflitto ucraino.

Perché né Biden, né tantomeno l'Unione europea vorranno ingoiare questo rospo.

Il primo perché è un rospo che porterebbe acqua al mulino di Donald Trump, che sta già scaldando i motori della sua prossima campagna elettorale, la seconda perché ne va della sua stessa esistenza come struttura sovranazionale in (lenta) edificazione.

Tutto precipita, insomma, attorno alla domanda su cui Orsini glissava: che cosa significa "vincere" per Vladimir Putin? Se qualcuno avesse la risposta certa – e non solo qualche ipotesi – saprebbe anche perché nell'Europa del 2022 abbiamo assistito impotenti a questa catastrofe e quale sarà il prossimo futuro che attende i cittadini europei (oltre che gli ucraini).

Foto: manhhai/Flickr


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