Turchia: il ruggito dell’islamista Erdogan

par UAAR - A ragion veduta
mercoledì 2 aprile 2014

Sembra quasi liberatoria la rivendicazione del premier turco Recep Tayyip Erdogan, fatta a breve distanza dalla chiusura dei seggi delle elezioni amministrative turche e quando ancora si era a metà dello scrutinio. Liberatoria, ma anche e soprattutto minacciosa verso un’opposizione responsabile, a suo dire, di aver ordito “piani e trappole immorali” ai suoi danni. Prevede, Erdogan, che ci sarà chi “cercherà di scappare domani” assicurando comunque che “pagheranno per quello che hanno fatto”. C’è da scommettere che non stia affatto scherzando.

Erdogan, lo ricordiamo, è leader della formazione politica di ispirazione islamica AKP da lui stesso fondata dopo aver scontato una pena detentiva per incitamento all’odio religioso. L’AKP divenne subito il primo partito del paese conquistando il 34,3% dei consensi alle elezioni politiche del 2002 e, grazie a un sistema elettorale con sbarramento al 10%, si assicurò la maggioranza in Parlamento. Il predominio del partito fu poi confermato nelle successive tornate elettorali, raggiungendo il picco nel 2011 con ben il 49,6% dei voti. Oggi paga un leggero arretramento di 3 punti, ben poca cosa rispetto alla disfatta pronosticata da molti prima dell’apertura dei seggi.

Questa tornata elettorale era considerata un banco di prova importante, per questo gli occhi di tutto il mondo sono puntati su Ankara. Il governo presieduto da Erdogan è andato avanti negli ultimi anni smantellando un pezzo alla volta lo stato laico lasciato in eredità dal padre della patria Kemal Ataturk. Si va dall’abolizione del divieto di indossare il velo nei luoghi istituzionali all’introduzione di limitazioni per l’accesso all’aborto e al varo dell’ora di religione islamica nelle scuole pubbliche, passando perfino per il licenziamento di una conduttrice televisiva troppo scollata in seguito all’intervento del portavoce del partito. A più riprese laici e oppositori (anche islamici) sono scesi in piazza per protestare contro la linea islamista del governo. Gli scontri più duri si sono verificati meno di un anno fa a piazza Taksim, diventata per questo simbolo della contestazione. Allora la miccia fu accesa dalla decisione del governo di demolire il parco Gezi, sito nella stessa piazza, per realizzare al suo posto un centro commerciale.

Ma è nella limitazione della libertà d’espressione che Erdogan ha dato il peggio di sé. Nel 2011 sei giornalisti furono arrestati con l’accusa di essere coinvolti in un presunto colpo di stato “laico”, e la stessa sorte toccò a distanza di un anno anche all’ex capo dell’esercito in pensione Ilker Basbug. Anche dirsi apertamente atei e ironizzare sulla religione islamica può costare caro da quelle parti, come ha avuto modo di sperimentare il pianista ateo Fazil Say accusato di incitamento all’odio religioso (paradossalmente la stessa accusa che portò Erdogan in carcere nel 1998) per qualche messaggio su Twitter.

Proprio la nota piattaforma di microblogging è stata recentemente disattivata dal governo turco, in piena campagna elettorale, per via della diffusione di link ad alcuni documenti provanti casi di corruzione nel governo e ad alcune intercettazioni telefoniche, tra le quali una in cui lo stesso Erdogan diceva a suo figlio di far sparire milioni di euro tenuti in casa. Il provvedimento è stato in seguito revocato da un tribunale amministrativo di Ankara, ma ad oggi il blocco è ancora attivo ed è stato esteso anche a YouTube con il pretesto che vi erano state diffuse rivelazioni militari pericolose per la nazione. Inoltre, Google ha reso noto che in Turchia il suo servizio di DNS è stato intercettato e sostituito dai provider locali in modo da dirottare le connessioni alle pagine non gradite.

Molti si aspettavano che tutto ciò sarebbe stato sufficiente per infliggere un duro colpo all’AKP, ma evidentemente così non è stato. Le opposizioni, divise, non hanno saputo sfruttare l’occasione, e anzi adesso tremano per l’ira di Erdogan, ancora più forte di prima grazie al consenso ottenuto e dunque ancora più determinato a proseguire nella sua marcia liberticida e islamista. L’Europa per il momento osserva e tiene nel cassetto l’adesione della Turchia all’Unione, già approvata dal Parlamento Europeo nel 2004. Nessuno può sapere cosa accadrà in Turchia nell’immediato futuro, se si consoliderà il regime o se ci sarà una sollevazione popolare ancora più forte di quelle degli ultimi anni, ma una cosa è certa: la laicità e la libertà sono ormai ridotte a un lumicino. Come spesso accade quando partiti dichiaratamente confessionali prendono il potere.

 


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