Turchia: il congresso del Chp rilancia un kemalismo d’attacco
par Enrico Campofreda
mercoledì 18 luglio 2012
KılıçdaroÄlu corre da solo e viene riconfermato leader (1.164 voti su 1.282 delegati) nel 34° Congresso del Partito Repubblicano del Popolo che si sta tenendo ad Ankara. Oggi (ieri per chi legge) seicento candidati del gruppo kemalista si contenderanno i sessanta posti nel Consiglio direttivo, fra questi l’ambitissimo incarico di responsabile amministrativo, per tradizione vera eminenza grigia dell’organizzazione, l’uomo che assieme al segretario detiene il vero potere. Nihat Matkap e Gursel Tekin i maggiori pretendenti. Il lungo discorso del leader uscente e vincente s’è soffermato, com’era prevedibile, sulla politica estera e sulla crisi siriana. Qui il capo del maggiore partito d’opposizione turco ha affondato la spada sulla diarchia di governo e di partito: ErdoÄan-DavutoÄlu. Una critica tagliente nei concetti e nelle parole usate, come la denuncia del “subappalto del potere egemonico occidentale nel Medio Oriente”. “Noi non dobbiamo piegarci. Non possiamo spaventarci, siamo il Paese di Mustafa Kemal” ha tuonato il segretario fra il delirio dei delegati. Un richiamo caro alla tradizione, oggi più armamentario del nazionalismo estremista che della linea intrapresa da tempo dal Chp. Ma tant’è.
La questione siriana è la mina vagante dell’attuale politica internazionale nel Medio Oriente e, anche ora che si combatte per le vie di Damasco, fra i grandi la Russia continua a non essere disposta ad abbandonare a se stesso l’alleato Bashar. Il quadro interno nella gestione di una futura leadership siriana appare una nebulosa assoluta, un dopo Asad, ipotizzato da mesi sulle agende occidentali, è così temuto (e da tanti) che lo status quo prevale su realismo politico, difesa dei diritti e delle genti disarmate. KılıçdaroÄlu, ribadendo di non volere la guerra nella regione, rimprovera a ErdoÄan di non aver mai lavorato a fondo per una conferenza internazionale sul tema impegnando Russia, Cina, Usa e Iran a trovare una soluzione nonostante gli interessi ferocemente contrapposti. Nelle scorse settimane la Turchia aveva toccato con mano l’incrudimento del conflitto in Siria con la vicenda dell’abbattimento di un suo (e della Nato di cui è membro) caccia da parte di un missile damasceno. Nelle polemiche interne seguite, politici del governo e dell’opposizione s’erano bersagliati di offese. Gli islamisti avevano attaccato i kemalisti proprio sul terreno a loro caro della difesa nazionale, accusandoli (sic) di antipatriottismo.
Fra i temi trattati c’è stato anche l’indipendenza della magistratura considerata succube delle pressioni governative sia in fase istruttoria sia giudiziale. E nella cavalcata antierdoÄaniana del leader repubblicano, accanto al terreno delle libertà (politica, di espressione, d’informazione) è spuntata l’immancabile questione kurda, che in altre fasi ha visto kemalisti, islamisti, oltre che nazionalisti, d’accordo nel reprimere i militanti del Pkk e contenere le velleità del Partito della Pace e Democrazia (filo kurdo). KılıçdaroÄlu rilancia quella che fu la tattica di ErdoÄan verso la popolazione kurda di Turchia fra il 2009 e 2010: l’idea di riconciliazione. Tentativo caduto nel vuoto a seguito sia di progressive richieste da parte della forte minoranza, sia di conseguenti chiusure dell’Akp di governo messo sotto pressione dal rilancio della lotta armata operata dal partito di Ocalan che considerava insignificanti i passi del governo e l’accusava di continuare la repressione contro le popolazioni delle aree del sud-est. Ora Kemal KılıçdaroÄlu tende una mano all’altra opposizione, occorre vedere quanto la mossa sia disinteressata.