Troppi Charlie che ciarlano
par UAAR - A ragion veduta
giovedì 12 febbraio 2015
È già passato un mese dall’attentato terroristico alla sede di Charlie Hebdo. Le immagini di quei giorni sono ancora talmente nitide che sembra quasi sia stato ieri: i fratelli Kouachi col mitra in mano mentre fuggono, le foto di Coulibaly e della sua compagna fuggita in Siria, gli ostaggi che escono dal supermercato Kosher. Ma anche, e soprattutto, il corteo che quattro giorni dopo sfilava per le strade di Parigi guidato da leader politici di tutto il mondo e lo slogan che campeggiava un po’ ovunque, da magliette e striscioni ad hashtag e immagini di profili sui social network: “Je suis Charlie”. Tutti ci sentivamo, e ci sentiamo, Charlie, offesi noi nell’orgoglio democratico forse non meno di chi si era offeso per le vignette raffiguranti Maometto, a gridare il nostro diritto di esprimerci liberamente per quanto ciò possa disturbare chi esige il totale rispetto di ciò che ritiene sacro.
Paradossalmente, e forse anche inevitabilmente, a soccombere nell’immediato furono però proprio quei meccanismi di garanzia che consentono a tutti di esprimersi liberamente. Con un decreto predisposto in fretta e furia il governo di Hollande conferì allora alla polizia postale il potere di disporre il blocco di interi siti internet, a sua totale discrezione e senza la necessità di un ordine della magistratura, qualora questi fossero stati ritenuti responsabili di apologia o istigazione al terrorismo. È chiaro che si tratta di reati che occorre in qualche modo prevenire e fermare, ma è altrettanto chiaro che misure simili hanno come effetto collaterale quello di mettere a rischio di oscuramento siti che si limitano a esercitare della sana critica. Cosa contestualmente avvenuta con l’arresto del comico Dieudonné, più volte in passato accusato di antisemitismo e adesso incriminato di apologia per aver scritto su Facebook che si sente Charlie Coulibaly. A poche ore e un lembo di mare di distanza un altro premier europeo, il britannico Cameron, prometteva di impegnarsi già dalla prossima campagna elettorale per mettere al bando le comunicazioni informatiche che fanno uso di crittografia, tra cui i popolari servizi Whatsapp e Snapchat. A voler essere cinici si potrebbe dire che qualche risultato i terroristi l’hanno raggiunto.
E se quelle erano le reazioni a caldo, dettate da paura e urgenza, a freddo la situazione è pure peggiore. Mark Zuckerberg aveva pubblicato orgogliosamente su Facebook, il social network di cui è fondatore, le seguenti parole il giorno dopo la strage: “Noi rispettiamo le leggi di ogni paese, ma non permettiamo mai a nessun paese o gruppo di persone di dirci quello che la gente può condividere con tutto il mondo”. Belle parole, da vero Charlie, ma c’è un problema; cosa fa Facebook se la legge di un paese gli impone di non pubblicare determinati contenuti? Per coerenza dovrebbe rivendicare la propria autonomia accettando il rischio di vedere oscurati i propri servizi in quel paese, ma secondo il Washington Post in realtà vi si è sempre adeguato e continua tuttora a farlo. E lo fa in particolare nella Turchia governata da Erdogan, un altroCharlie della prima ora che non ha resistito a mettersi in mostra nel corteo parigino di solidarietà alle vittime salvo poi, una volta tornato a casa, riprendere una delle sue attività preferite: la censura di oppositori e blasfemi.
Già, la blasfemia. Il delitto d’opinione per antonomasia visto che punisce chi critica i convincimenti altrui. Un delitto che tutt’oggi viene considerato tale in molte nazioni e che dal 30 gennaio scorso è oggetto di una nuova campagna globale lanciata dall’Iheu, organismo umanista internazionale di cui fa parte anche l’Uaar che quindi aderisce pienamente anche alla campagna “End Blasphemy Laws”. Quando si pensa al reato di blasfemia si immaginano istintivamente le vittime dei regimi teocratici islamisti, come le cristiane Meriam eAsia Bibi ma anche come il libero pensatore Raif Badawi, recentemente nominato per il nobel per la pace insieme al suo avvocato, e i tanti atei tra cui Alber Saber e il recentissimo caso di Karim al-Banna. Non bisogna però dimenticare che anche in occidente vi sono tuttora leggi anacronistiche che puniscono la blasfemia, anche se in genere si tratta di reati amministrativi poco applicati, e in Italia vige ancora perfino ilreato penale di vilipendio. A ben vedere non è che qui gli Charlie veri siano poi così tanti come si potrebbe pensare.
Tra tanti paesi che continuano a mantenere leggi contro la blasfemia, per inerzia o per non rischiare di urtare la suscettibilità delle religioni con la loro abolizione, ne spicca uno che il reato l’ha addirittura introdotto appena cinque anni fa, in pieno ventunesimo secolo. È l’Irlanda, paese da sempre caratterizzato da una forte influenza della Chiesa cattolica e che adesso, nel dopo Parigi, si trova a dover fare i conti con quella legge scellerata che punisce chi arreca insulto o offesa riferendosi a ciò che viene ritenuto sacro da una religione. Non deve essere sembrato vero ad Ahmed Hasain, segretario del Centro Culturale Islamico, che ha infatti subito puntato il dito sulla recente pubblicazione della rivista Charlie Hebdo in Irlanda dicendo che questa è illegale. E non gli si può dare torto, tecnicamente è proprio così. Il paradosso irlandese dimostra clamorosamente, se mai ce ne fosse il bisogno, che quando si cerca di tutelare i permalosi si uccide di fatto la libertà di tutti.
Come se non bastasse di recente l’attore Stephen Fry, notoriamente ateo, in un’intervista su un canale televisivo irlandese ha risposto al presentatore che gli chiedeva cosa direbbe a Dio se un giorno dovesse incontrarlo con queste parole: “Come ti sei permesso di creare un mondo dove c’è tanta miseria di cui non abbiamo colpa? Non è giusto. È totalmente sbagliato. Perché dovrei rispettare un Dio capriccioso, narcisistico e stupido che crea un mondo pieno di ingiustizie e sofferenze?”. Anche Fry ha tecnicamente violato la legge irlandese e potrebbe essere incriminato secondo le leggi locali se solo le autorità volessero. A dirla tutta pure noi potremmo essere processati se facessimo affiggere i nostri manifesti “Senza D” nelle strade di Dublino.
Perfino l’arcivescovo di Canterbury si è sentito in dovere di difendere Fry: “È nel diritto di Stephen Fry dire ciò che ha detto e non essere attaccato dai cristiani com’è nel diritto dei cristiani celebrare Gesù Cristo”. Lo stesso arcivescovo che insieme ad altri 28 leader religiosi britannici ha chiesto al suo governo di rivedere la decisione di escludere le teorie laico-umanistiche dall’insegnamento della religione nelle scuole, in modo che il curricolo sia più ampio e inclusivo. Si dirà che comunque la Chiesa anglicana, così come le religioni cristiane protestanti diffuse nell’Europa settentrionale, ha una visione più laica e moderna, e certamente si avrebbe ragione a dirlo ma fatto sta che in Francia perfino musulmani, buddhisti ed ebrei hanno aderito allacampagna di Reporter senza frontiere intitolata “La libertà d’espressione non ha religione”, il cui scopo è quello di rivendicare il diritto di critica verso le religioni. Questo per dire che a volte gli Charlie si nascondono dove meno te l’aspetti, a dispetto di tanti altri sedicenti Charlie.