"Tredici": una ricerca della verità tra segreti indicibili e false apparenze

par Francesco Grano
venerdì 21 aprile 2017

La tranquillità di una piccola cittadina americana è sconvolta dal suicidio inaspettato di Hannah Baker (Katherine Langford), una studentessa del liceo locale. Qualche giorno dopo l’accaduto Clay Jensen (Dylan Minnette), compagno di classe della defunta, trova di fronte la porta di casa sua una scatola contenente sette audiocassette e una cartina stradale. Non sapendo cosa ci sia inciso su, Clay inizia ad ascoltare i nastri facendo un’amara e inquietante scoperta: prima di suicidarsi Hannah ha registrato una sorta di confessione in cui elenca i tredici motivi, ognuno equivalente a un lato delle audiocassette, che l’hanno spinta all’estremo gesto. Titubante ad andare oltre con l’ascolto Clay si trova alle strette quando, nel nastro iniziale, scopre che tra le motivazioni compare anche il suo nome. Deciso a capire fino in fondo cosa sia successo veramente, il ragazzo continua ad ascoltare gli audio ma, così facendo, si imbatte in un insieme di agghiaccianti segreti.

Parlare senza peli sulla lingua di delicati temi e affrontare determinati fatti di attualità, a volte, si tramuta in una sorta di caccia alle streghe in cui a prevalere sono il bigottismo, legato a quella chiusura mentale che non accetta le cause ma, piuttosto, imputa colpe alle vittime e quell’ “effetto tabù” che porta ad evitare la trattazione di specifici argomenti. Fortunatamente c’è chi, senza dare peso o importanza ai ben pensanti, dimostra di avere tutto il coraggio necessario nel muovere un duro j’accuse, anche mediante un semplice mezzo come la fiction, volto a mostrare e discutere su fenomeni socio-antropologici come il bullismo, il suicidio e la violenza (psicologica e fisica) tra adolescenti. Un recente esempio di quanto affermato fin qui è la nuova serie drammatica a marchio Netflix Tredici (Thirteen Reasons Why, 2017) ideata da Brian Yorkey.

Tratto dal romanzo 13 (Thirteen Reasons Why, 2007) di Jay Asher Tredici è un thriller psicologico costruito seguendo la classica struttura del giallo nella quale, dopo il verificarsi di un evento, si procede alla ricerca di indizi e tracce che possano spiegare l’inspiegabile. Non a caso e fin da subito il personaggio di Clay Jensen assume una doppia valenza durante i tredici episodi che compongono la serie: da un lato quello di uditore di una testimonianza incisa su nastro che lo porta, per forza di cose e senso di giustizia, a diventare indagatore nei confronti dei compagni e delle compagne di scuola che, direttamente o indirettamente, hanno a che fare con il suicidio di Hannah; dall’altro lato Clay si tramuta in una sorta di Virgilio che accompagna lo spettatore, nastro dopo nastro, in una ricerca della verità tra segreti indicibili e false apparenze.

A metà strada tra il dramma esistenziale e l’inchiesta cronachistica, il serial di Brian Yorkey catapulta gli spettatori in quell’America provinciale, in quelle piccole e limitate realtà urbane sonnolente, con un indice di criminalità al minimo e in cui il massimo del gossip è rappresentato dalle feste tra studenti. Un posto ideale, quindi, una comunità apparentemente idilliaca ma che, invece, nasconde quel dark side, quel lato oscuro in cui si muove, dietro un’apparente facciata di sorrisi e spensieratezza, tutta la malvagità di cui alcuni tipi di adolescenti sono capaci. Le intenzioni di Tredici non sono poi tanto nascoste né tantomeno messe in secondo piano: la nuova serie di Netflix parla di adolescenti, ha per protagonisti degli adolescenti e si rivolge agli adolescenti (e anche agli adulti) della nostra società.

La serie di Yorkey non ha l’intenzione di massificare o dipingere ogni singolo adolescente come un mostro ma, semmai, punta il dito sulla criticità di quegli episodi in cui il più forte cerca di prevalere sul più debole, facendo ricorso a soprusi psicofisici difficili da sopportare e tenere dentro di sé e che, come purtroppo la cronaca quotidiana ci mostra, portano verso gesti di extrema ratio come il suicidio. Parimenti il monito più importante al centro delle vicende di Tredici è quello riguardante lo spropositato e spesso inappropriato utilizzo dei social network e dei servizi di chat che, nelle mani sbagliate, possono innescare, con la condivisione di un nonnulla, un devastante e letale effetto domino ai danni della vittima di turno. Nella generazione 3.0, tra quei nativi digitali che smanettano per ore tra social e messaggi, incapaci di comunicare realmente face to face e ostinati a creare una personale “mitologia” posticcia e apparentemente perfetta della loro stessa figura pubblica, la violenza e il fenomeno del bullismo non si limitano alla sola fisicità bensì viaggiano nell’etere e sul web mediante la pubblicazione e la condivisione di massa di foto e post. E con molte probabilità è proprio questo il messaggio nonché la certezza più sconvolgente che Tredici mostra senza mezze misure: ovvero di come il bullismo e gli episodi ad esso connessi non rimangono isolati nel contesto in cui avvengono, ma sono messi alle mercé e alla disponibilità di tutti mediante un clic.

Girata egregiamente e ottimamente interpretata, la nuova serie di casa Netflix ha l’enorme pregio di portare sullo schermo una storia altamente drammatica e cruda, un’opera di accusa, denuncia e impegno civile di fronte alla quale è impossibile non emozionarsi e riflettere sull’importanza e la capacità nel riuscire a saper cogliere e ascoltare il messaggio di aiuto di chi, per la pura follia o il gusto sadico del prepotente di turno, ha perduto il coraggio di far sentire la propria voce.


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