Tornata dall’Inghilterra, vi spiego perché l’Italia mi fa male

par Federica Piacentini
venerdì 16 marzo 2012

L’Italia mi fa male. Una settimana qui e il raffreddore ottura le narici. La televisione ottura il resto. Da quando sono tornata da Londra, mi si sono svuotati gli occhi.

Non c’è nulla che mi spinga a vedere oltre i confini, verso quel futuro piccolo e ingenuo che potrebbe crescere come un germoglio. Nulla che spinga fuori dalle mura domestiche. Nulla che stupisca come i bimbi di fronte a un’alta montagna di bianco zucchero filato. Niente, se non l’inconsapevolezza degli italiani, della nostra misera condizione. E uso l’aggettivo “misera” non in termini dispregiativi, ma con rammarico. Non solo economica è la nostra misera condizione, è anche sociale, umana, culturale.

Quando sono arrivata a Fiumicino, ero triste. Mi guardo intorno e lo sono ancora, perché vedo un’Italia diroccata come le sue bellezze, sconcia come i suoi politici, degradata come l’intera società, da nord a sud. E senza passare per il via, come direbbe un caro amico. Ho ritrovato un volto vecchio e lento, senza saggezza, solo aspro, arrabbiato, arreso oramai al come vanno e andranno le cose, sintomo pericoloso che difficilmente qualcosa cambierà. E quell’energia straordinaria, che mette in movimento e sprona a credere nelle tue capacità e provare, qui si trasforma in disorientamento e apatia. Rassegnazione al sistema, adattamento, come le giraffe di Darwin. Solo le giraffe qui sopravvivono, tutti gli altri sono già consegnati all’estinzione.

Passeggiavo per Hyde Park e pensavo quanto bello fosse ascoltare il mondo attorno, mentre il sole scompariva all’orizzonte del laghetto. La mia macchina fotografica scattava, io mi rigeneravo. Le rotelle sull’asfalto degli skateboards, la musica degli stereo, le biciclette, i cavalli e il chiacchiericcio, qualche chitarra e una coppia sdraiata sul prato. All’ombra di un grande albero, uno scoiattolo consumava indisturbato la sua ghianda fino a ritrovarsi le zampe vuote, e allora via a cercare qualche sciocco turista che risparmi la fatica lanciando una nocciolina. E io ascoltavo tutti questi rumori dal mondo, poi suoni, infine voci che lentamente si tramutavano in parole. Qui sono divenute sorde. Adesso, attorno a me c’è il silenzio. Un paese spettrale che si affida sempre a qualcuno per ricominciare.

Ovunque andassi, in giro per la City, qualcuno o qualcosa sembrava dire: «Non smettere di credere nei tuoi obiettivi, concentrati su di essi». E allora il passo è breve, l’ispirazione, l’energia, il desiderio di rimettersi in moto diventa un irresistibile viaggio da intraprendere. Anche tu, con tutte le tue funamboliche stramberie, sei un colore, nonostante il cielo grigio. È la gente che dipinge la città, con il modo di vestire, con i tratti bastardi perché le razze si sono mescolate, con il proprio modo di essere.

Un giorno, siamo andati ad ascoltare un concerto e incontrare qualche nuovo amico. Si teneva nel jazz bar di una immensa libreria, accogliente, fornita, curata. Mi sono seduta, insieme a me molte altre persone, in silenzio, con una birra da sorseggiare, erano appena le sei del pomeriggio. Imparai dopo a bere alle sei del pomeriggio, dopo qualche giorno, dopo aver smaltito il fuso e i nuovi orari. Il mio occhio cadde su una strana coppia, seduta in fondo. Lei disegnava su un block notes, lui scattava. Lei indossava una lunga camicia bianca e una cravatta nera, il rossetto rosso intensificava sguardo e labbra. Disegnava. Uno schizzo, forse si trattava di uno schizzo. Lui le stava accanto, rideva, scattava, osservava il soggetto e poi la pagina. Quando si accorsero del mio sguardo, io lo distolsi. Per me il gesto naturale del disegnare era sinonimo di una libertà di cui mi sono sentita subito parte. E ne ero felice. Ero già in movimento. Ne sono capitati altri di episodi come questi, nei musei, nei parchi, lungo le vie della città.

Londra è come un grande appartamento in condivisione: ciascuno ha il proprio spazio, ma tutto è condiviso. E questa sorta di continua osmosi emozionale risveglia le energie assopite, la voglia di farcela rimanendo se stessi. L’Italia snatura, ti costringe a essere ciò che non vuoi e che devi perché il sistema non può e non sa assorbire professioni “non convenzionali”, come amo definirle io.

Mi piacerebbe conoscere il parere di Pasolini su quest’Italia che lui ha pre-visto tempo fa. Si, torno sempre a lui, poiché Pasolini è stato uno tra i più grandi intellettuali della seconda metà del Novecento. Intelligenza acuta, fine sensibilità nel raccontare mondi, interpretare movimenti, società, correnti. Allora, mi chiedo chi riuscirà a tirar fuori dalle sabbie mobili l’Italia se intellettuali come Pierpaolo Pasolini non ce ne sono più, e quelli che abbiamo sono semplici sagome, sagome buone solo a infarinarsi la bocca, senza raccontare parabole come un Cristo ai suoi discepoli. Chi dirà: quella è la via, così andremo a finire nell’ennesimo tendone da circo dove campeggerà un altro nano? E così anch’io senza una mente come Pasolini ho perso la direzione, in questo paese che non vuole prenderne una.

L’Italia è appena uscita da una disastrosa guerra morale, civile ed etica che continua a sacrificare la parte migliore, ed è già in agguato l’approfittatore di turno. Ho pensato in questi giorni che gli italiani hanno meritato Berlusconi, e suonano forti le parole di un signore del giornalismo a proposito dell’imprenditore e del “Bel paese”, Montanelli. E torna la tristezza, da Italiana. Torna quando sul tipico autobus londinese a due piani penso alle risate dei turisti di fronte al ristorante italiano dal nome “Bunga Bunga”. No, io non sono “italiana bunga bunga”. Io sono Italiana.

 


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