The road: John Hillcoat rappresenta una civiltà

par angelo umana
lunedì 26 agosto 2013

Potente rappresentazione di una civiltà sull'orlo del baratro, The Road riprende l'omonimo romanzo di Cormac McCarthy, dando alla vita una sinfonia possente e poetica.

Lupi famelici senza futuro sono diventati gli uomini, quei pochi che ancora si aggirano sulle strade americane, sopravvissuti a una catastrofe incomprensibile, ma che deve essere qualcosa di molto simile alla fine del mondo. Derubano e uccidono oppure vagano verso mete improbabili, in un paesaggio cinereo – scene a colori sono solo quelle in cui il protagonista ricorda la sua vita com’era - disseminato di cadaveri dove tutto è distrutto e cadente. Gli strumenti che rendevano comoda ed efficiente la civiltà occidentale, le auto, le costruzioni, le strade, sono precocemente fatiscenti. Un papà e il suo bambino vanno verso il mare, la mamma, che pure glielo ha suggerito, ha rinunciato a intraprendere quel viaggio, si è lasciata morire perché, diceva, “non mi basta sopravvivere” e comunque molte altre famiglie lo facevano, lasciarsi morire piuttosto di intraprendere un vagare senza speranza.

Ma togliersi la vita è un lusso che non possiamo e non dobbiamo permetterci. Questo papà dà speranza al figlio o da lui soprattutto ne trae, lo convince che ci sono ancora i buoni, quelli che hanno il fuoco dentro. Il bambino, è scritto nel libro di Cormac McCarthy (premio Pulitzer 2007), “era la sua garanzia. Se non è lui il verbo di Dio allora Dio non ha mai parlato”. È dunque anche un film d’amore tra padre e figlio, e il lungo tragitto è anche preparazione alla vita – quale che sarà, in luoghi da post fine del mondo – e si scambiano amore reciproco come nessun verbo di Dio potrebbe mai. D’altra parte Dio, se ve n’è uno, dice il vecchio decrepito che incontrano sulla loro strada (nientemeno che Robert Duvall), “ci ha voltato le spalle”. È sempre il vecchio a dire che “c’erano stati dei segnali” premonitori di quel disastro, forse l’umanità non meritava più un mondo e forse di lupi famelici il mondo in effetti è già ora abitato. Il libro e il film ne potrebbero essere una rappresentazione esacerbata.

È il bambino la speranza, è lui che dà la mano al vecchio, e cibo, il vecchio ha creduto di star sognando quando ha rivisto un bambino, credeva fosse un angelo. A lui pian piano tocca preoccuparsi di suo padre, sempre più malandato ogni giorno che passa, ma i giorni e le stagioni ormai non contano, non ci sono più calendari. Il bambino ha portato con sé qualche oggetto della sua vita precedente, come un orsacchiotto e la forcina per capelli della mamma, per la sua stessa natura e per l’umanità che ancora possiede è proteso alla vita, vorrebbe ancora giocare quando intravede un bambino.

Che in questo clima da fine della civiltà il bambino possa incontrare una nuova famiglia è inverosimile ma è anch’esso un atto di speranza, un approdo a quel peregrinare, che McCarthy ha previsto nel suo libro, di cui il film è rappresentazione fedele. Film di John Hillcoat a lungo non comprato fuori dagli Usa perché ritenuto troppo deprimente, in realtà lascia solo buone sensazioni.


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