Thanksgivukkà e l’intelligenza ebraica
par Fabio Della Pergola
venerdì 29 novembre 2013
Un articolo sulla "intelligenza ebraica" si presta a facili equivoci e ad altrettanto facili polemiche, ma una riflessione pacata forse ci sarà concessa.
Primo dato
Un articolo de Il Foglio titola “Gli ebrei d’America stanno morendo di laicità”.
Che incuriosisce perché è voce abbastanza diffusa, ma evidentemente fasulla (a parte ciò che riguarda gli ultraortodossi), che gli ebrei in genere facciano vita a sé e che siano piuttosto legati alle loro tradizioni e tetragoni al mondo esterno.
In realtà dice l’articolo, citando il New York Times, “si tratta del ‘primo sondaggio in dieci anni’ sullo stato di salute dell’ebraismo statunitense. Dati choc per un fenomeno conosciuto ma mai davvero analizzato scientificamente. Il matrimonio interreligioso è salito al 58 per cento (...), e arriva addirittura al 71 per cento per gli ebrei non ortodossi”.
La conseguenza è ovvia. Non nascono più ebrei ‘puri’ (per usare una terminologia adatta alla bisogna) e anche quei “mezzi ebrei” figli delle coppie miste tenderanno ovviamente a considerare sempre meno stringenti i legami culturali o religiosi con le origini ebraiche del genitore ebreo.
L’articolo afferma anche “che due terzi degli ebrei non appartiene a una sinagoga, un quarto non crede in Dio e un terzo ha un albero di Natale in casa durante le feste. La secolarizzazione riguarda anche l’educazione: due terzi degli ebrei americani non impartisce ai figli una educazione ebraica”.
Particolare non trascurabile nella transitoria "fusione" delle tradizioni il fatto che quest'anno la festa più importante della tradizione americana, il Thanksgiving day, e quella tipica ebraica, la festa delle luci chiamata Channukkà, si festeggino nello stesso giorno, immediatamente ribattezzato Thanksgivukkà. La prossima volta capiterà di nuovo fra 79mila anni (così ho letto, non so se sia vero), mica scherzi.
Insomma buona parte della comunità ebraica americana sta lentamente “evaporando”. Non abbiamo dati né su quella sparsa nel resto del mondo né su quella israeliana (dove una certa recrudescenza del sentimento religioso è stata notata negli ultimi tempi, ma partendo comunque da dati tradizionali relativamente bassi in confronto agli standard cristiani o, tantopiù, islamici). Ci troveremmo dunque di fronte alla lenta ma progressiva sparizione di uno dei più antichi gruppi etnico-linguistici e culturali della storia, nella sua componente non israeliana.
Secondo dato
Se uno chiede a quanti ebrei è stato conferito il Premio Nobel, la maggior parte delle persone penserà ad Albert Einstein, ovviamente.
Poi, per motivi di vago orgoglio nazionale (italiano), qualcuno magari si ricorderà anche di Rita Levi Montalcini o, i più raffinati, di Emilio Segrè o di Franco Modigliani. Gli appassionati di letteratura preferiranno ricordare invece Saul Bellow e Elia Canetti. Oppure Nadine Gordimer.
Quasi nessuno invece penserà a Boris Pasternak., l’autore del famoso Dottor Zivago.
Quest’anno il premio Nobel per la fisica è stato assegnato al belga François Englert - collega del più noto Peter Higgs, padre del bosone omonimo - e il Nobel per la Medicina a due americani, Randy Schekman e James Rothman; mentre il premio per la Chimica a tre scienziati Martin Karplus, Michael Levitt e Arieh Warshel.
Higgs a parte, tutti gli altri hanno origini ebraiche.
Se uno volesse approfondire la questione può visitare un sito specifico, il JEWISH NOBEL PRIZE WINNERS che elenca i tanti nominativi di persone, ebree o figlie di almeno un genitore ebreo, vincitrici di Nobel.
Che sono pari al 22% di tutti i Nobel assegnati da sempre per la Chimica, al 39% dell’Economia (vi prego evitate le prevedibili battute su ebrei e quattrini!), al 12% della Letteratura, al 26% della Fisica e al 27% anche per la Medicina.
Mediamente quasi il 25 per cento di tutti i Nobel assegnati nella storia del premio è andato ad un ebreo e se si tiene conto che tutti gli ebrei sparsi nel mondo sono circa lo 0,5 per mille dell’intera popolazione mondiale (circa 14 milioni su 7 miliardi di persone), la percentuale di premi Nobel attribuiti ad ebrei appare a dir poco strabiliante.
Insomma, c’è una vistosa e innegabile sproporzione fra la percentuale dei premiati e l'incidenza della popolazione ebraica su quella mondiale.
Questa cosa è nota e molto spesso si sente parlare, con malcelata invidia o con insopportabile supponenza, di una non meglio definita “intelligenza ebraica”. Il che ci porta ad un passo (o forse anche oltre) da discorsi decisamente razzisti.
Allora, se escludiamo drasticamente qualsiasi ipotesi "genetica", perché esiste una sproporzione così eclatante fra i tanti Nobel attribuiti a scienziati ebrei e il numero di ebrei viventi nel mondo ?
Una battuta circola da tempi immemorabili nelle comunità ebraiche e dice che là dove ci sono due ebrei ci sono almeno tre pareri diversi (e forse è nella tradizione ebraica che affondano le radici della litigiosa "sinistra" politica).
Lo stesso concetto è espresso, in modo più articolato dal rabbino romano Di Segni: “La società occidentale è abituata a definizioni precise, a dogmi, alla necessità di inquadramenti dottrinali; la condizione ebraica, (...) rifiuta di formulare, tranne che in rarissime eccezioni, principi dogmatici e verità assolute”.
Due ebrei, tre pareri discordanti è il modo popolare e burlesco di definire l'assenza di dogmatismo della tradizione culturale e religiosa ebraica.
Adesso forse possiamo fare una riflessione seria, aliena da qualsiasi razzismo, filo o anti ebraico, e ipotizzare come dei tre monoteismi (cioè delle tre tradizioni religiose che ruotano attorno al Mediterraneo e che hanno dato origine, influenzandosi fra loro e con le componenti non religiose, alla civiltà di tutto il mondo, a parte l’Estremo Oriente) l’ebraismo sia l’unico che non ha mai adottato un modo di pensare dogmatico, fatto di verità assolute. In cui, di conseguenza, la ricerca della verità - qualunque sia l’argomento trattato, a partire dall’essenza divina per arrivare alla fisica quantistica - è frutto di dialettica, di un pensiero relativamente libero, di approfondimenti nel dibattito, di una capacità di tenere fuori dalla mente le idee preconcette e, appunto, i precetti dogmatici.
Non è, o non è sempre stato, così per tutto, alcuni dogmatismi esistono anche nell’ebraismo, ma l’antichissima abitudine al pilpul - l'analisi dettagliata ed interpretativa dei testi che in italiano potremmo definire "spaccare il capello in quattro" - ha reso la cultura ebraica ben diversa da quella cristiana, da sempre assuefatta ai dogmatismi stabiliti dall’alto e dall’alto imposti a ottundere le menti; come anche da quella tradizione islamica che era ben libera e capace di produrre altissima curiosità e cultura nei secoli d’oro della sua espansione, ma che forse ha smesso progressivamente di essere produttrice di idee e di cultura scientifica (ma non di arte) almeno dal X secolo, da quando fu imposta una lettura letterale - quindi non interpretabile - del Corano.
Non è senza significato che islàm significhi "sottomesso (a Dio)" mentre Israele - che fu il nuovo nome di Giacobbe - significa "colui che ha combattuto con Dio e ha vinto".
Allora possiamo dedurre che l’alta percentuale di Nobel ebrei non dipende da una inesistente maggiore “intelligenza ebraica”, ma da una tradizione millenaria scevra di dogmatismi e capace al contrario di produrre curiosità, domande, stimoli di ricerca e quindi, alla fine, anche un'intelligenza più plastica e multiforme.
Un'intelligenza che si è sviluppata maggiormente in ambito scientifico che in quello umanistico e, in questo contesto, più in ambito romanzesco che in quello poetico; che deve molto invece alla tradizione arabo-andalusa del IX-XIII secolo (ma poi sviluppata perlopiù in Italia).
Forse per essere poeti si deve essere più "sottomessi" all'ineffabile che capaci di dibattere pervicacemente su ogni questione; anche se poi si rischia di perdere, appunto, la capacità critica.
Insomma, si parla di tradizioni culturali, non di razze; spero che questo sia chiaro.
Nel mondo occidentale, visto l'alto grado di assimilazione, come abbiamo visto all'inizio dell'articolo, e una certa percentuale di emigrazione verso Israele (per motivi politici o religiosi) dall'altra, la presenza ebraica tende a rarefarsi. Con un sottile rischio di impoverimento delle capacità puntigliosamente dialettiche che sono forse il più importante retaggio della cultura ebraica. Da cui potremmo imparare a "spaccare il capello in quattro" e a non adattarsi mai alla conoscenza acquisita ritenendola intoccabile. Nemmeno a quella ebraica, ovviamente.
Per chiudere questo articolo mi piace inserire una citazione tratta da "Sono ebreo, anche", di Arturo Schwarz:
"Può sembrare paradossale che una persona come me - che si professa anarchico e quindi ateo e, per giunta, surrealista - rivendichi la sua ebraicità e che proprio nell'ebraismo trovi i motivi che rafforzano le sue convinzioni. In realtà, tutto ciò sarebbe contraddittorio se nell'ebraismo non fossero enunciati le stesse aspirazioni e gli stessi principi fondamentali che hanno determinato la mia filosofia di vita. In sintesi: il rifiuto del principio d'autorità, la brama di conoscenza, il rispetto del diverso, l'anelito di giustizia, il rispetto della natura, il diritto alla felicità, il riconoscimento della valenza salvifica e iniziatica della donna".
Non è robetta trascurabile.