"Terùn, a me?"

par Eliana Iuorio
sabato 11 giugno 2011

Riflessioni di una giuglianese, in viaggio per il nord.

Il bollettino meteorologico mi aveva spaventato.

La voce alla radio parlava di pioggia e temporali ed io stavo per salire su un aereo, direzione profondo nord.

Un volo low cost, di quelli che paghi a prezzo stracciato e che ti danno tutta l’impressione di un viaggio in corriera, come era in uso tempo fa (nei tuoi ricordi ne hai provato l’ebbrezza freddamente, davanti all’immagine in bianco e nero, di un De Sica militare ed una Merlini levatrice anni ’50, stretti nel saluto pre-partenza).

Sei seduta, costretta da una corda che chiamano cintura di sicurezza e guardi con curiosità e solidarietà, lo steward che ripete automaticamente gesti meccanici, indicando svogliatamente le uscite laterali, le disposizioni in caso di incendio.. pensi a quante volte l’avrà ripetuta, nella sua vita, quella pantomima.

Ma sei fortunato. Hai il posto accanto all’oblò.

Pensi che vomitare sulle nuvole, tutto sommato, potrebbe avere anche il suo fascino.

Ti allontani da una terra per ritrovarti in un’altra: questo è tutto.

Il tempo passa, dai, hai acquistato due riviste di quelle che dovrebbero distrarti... ma come per dispetto, quasi per infierire ancora di più sul tuo “già di per sé traumatico stato emotivo”, eccoti apparire a pagina 10 il faccione di Umberto Bossi.

Ti spaventi, vero, ma la curiosità prevale e decidi di immergerti nella lettura.

Certo che è strano. Prima delle elezioni, lo avresti immaginato a soffiarsi sulle unghie, in una Spa di lusso, circondato dai suoi fedelissimi, in attesa dell’esito; oggi lo pensi nervoso, a sgranocchiarsi le unghie o forse solo annoiato, chissà.

Un occhio all’oblò.

Campi coltivati, verde, terre ovunque: questo, il panorama.

D’un tratto vieni raggiunta dalla voce del signor “Roma ladrona”, già sai, è un’allucinazione, ti capita spesso; te lo senti piccolo sulla spalla destra, sussurrarti all’orecchio, come nei cartoni animati, ma vestito di rosso, da lucifero in miniatura: “terùn, sei arrivata a casa mia”.

Aggrotti istintivamente le sopracciglia, interrogativa, mentre ti liberi dalla prigione della cintura, sui fianchi.

“Terùn a me?” – gli rispondi, in questo immaginario dialogo schizofrenico –

“Ma ne sei proprio sicuro?” – aggiungo –

Lo vedi, piccolino, poggiare la sinistra sotto il gomito destro, mentre quest ultimo regge il mento; inclina la testa verso destra, dubbioso.

E sì. 

A casa tua, colate di cemento hanno reso irriconoscibili quegli spazi aperti in cui giocavi da bambina.

Le lunghe distese di mele annurche, nei campi dei contadini, erano uno spettacolo, così come il sapore, di quelle delizie.

Tempo che fu. Lasci scorrere nella tua mente, le immagini delle tante campagne, divenute col tempo oggetto di conquista dei signori del cemento.

Stai scendendo la scaletta, col bagaglio a mano; stai entrando nel minibus, per guadagnare l’uscita.

Il telefonino squilla, ma non rispondi.

Pensi ai pozzi avvelenati, che per anni hanno alimentato le colture del tuo paese.

Pensi alla discarica a cielo aperto, lungo le tue strade.

Pensi a tutte le balle, dietro l’enorme mostro scuro di finte ecoballe, accatastate accanto ai pochi campi rimasti ancora in piedi, nonostante tutto, a Taverna del Re. 

“Noi, terùn?” – ti chiedi, maledicendo il metereologo che dava pioggia, spogliandoti della giacca, sotto un sole estivo -

Un tempo. Tanto tempo fa. 

E la ricevuta del biglietto d’aereo finisce in un contenitore.

“Carta”, c’è scritto su.

Un miraggio, dall’ “accento” nordico.


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