Terremoto in Abruzzo: i giochi sono fatti

par Pietro Orsatti
sabato 25 aprile 2009

Terza settimana sotto le tende, e la macchina della ricostruzione che si mette in moto. In che modo? Il silenzio dei media e i proclami del premier non rassicurano gli abruzzesi.
di Pietro Orsatti su Left Avvenimenti

(foto di Maura Pazzi e Marco D’Antonio)

Il terremoto è scomparso. Viva il terremoto. Scivolato nelle pagine interne dei giornali, taglio basso, con una velocità impressionante, il sisma che ha sconvolto mezzo Abruzzo nelle prime ore del 6 aprile (e continua a progredire con il cosiddetto “sciame”), uccidendo quasi 300 persone. Trecento per quello che si sa, anche perché, come spesso succede, dopo 7 o 8 giorni si smette di cercare di routine e la calce viva prima e le ruspe poi cancellano ogni traccia. Non è ferocia, non è dimenticanza: è fondamentale evitare epidemie e ulteriori ritardi. È la legge delle catastrofi. E la legge delle catastrofi è impietosa. Come nel caso di un centinaio di terremotati della provincia di l’Aquila trasferiti sulla costa abruzzese e alloggiati presso alcune strutture ricettive di Scerne di Pineto che dopo due settimane sono stati evacuati a causa dell’esondazione del fiume Vomano. Dove li hanno trasferiti? Un po’ qui e un po’ là. Ci si penserà. Poi.

Il terremoto è scomparso, viva le polemiche sul referendum, o quelle su Vauro e Santoro e poi sull’ultimo nominato al reality in voga (“La fattoria”, cosa di meglio in tempo di catastrofe naturale?). Onna è già storia, la Casa dello studente la ricostruiremo più bella di prima. Più solida ci vuole poco. Riappare, il terremoto, solo quando si parla di venti bambini che tornano in una scuola da campo sotto l’occhio compiaciuto e paterno (o paternalista?) del premier scravattato. Gli altri 15 o 16mila studenti di ogni scuola e grado che si dividono fra tendopoli, residence e addirittura, ancora, pianali delle automobili di famiglia? Ci si penserà. Poi.

«Ho inviato in tutti i centri abitati di qualche importanza, compresi quelli dispersi sulle montagne, nuclei di truppe di forza adeguata e mezzi sanitari per prestare opera efficace di soccorso intesa a conseguire i seguenti scopi: estrarre le persone sepolte vive, medicare i feriti e sgomberarli nel più breve tempo sulla ferrovia Sulmona-Avezzano, con immediato inoltro negli ospedali; vettovagliare la popolazione superstite, specialmente quella rimasta tagliata fuori dalle linee di comunicazione e nell’impossibilità di provvedere da se stessa alle derrate perché sepolte sotto le macerie; disciplinare e provvedere all’estrazione e tumulazione dei cadaveri per necessità igieniche; disciplinare gli scavi delle proprietà private per salvaguardare i diritti degli eredi; impedire a qualunque costo manomissioni e furti delle proprietà abbandonate e peggio ancora reati contro le persone; improvvisare ricoveri nella più larga misura, in tutti i centri ove era popolazione superstite per il momentaneo riparo dei feriti in attesa di trasporto e degli incolumi; promuovere appena possibile gli elementi per la rinascita a nuova vita dei centri abitati». No, non è Bertolaso. Anche se sembra oggi. Si tratta di un brano della relazione dell’Autorità militare del Regno datata gennaio 1915. Terremoto della Marsica. La terra tremava allora, come trema ora. Ma non si è imparato nulla. Certo, nel ’15 i morti furono 29mila su una popolazione complessiva di 120mila persone e oggi poche centinaia. Però. C’è sempre un però.

Quelle case “teoricamente” antisismiche esplose come se fossero state colpite da una granata di obice gridano vendetta. Come quei materiali plastici nei tramezzi dell’università, quei ferri lisci nel cemento armato, quella sabbia eccessiva (se non in alcuni casi corrosiva perché di origine marina), quei condoni edilizi che hanno reso legali piani aggiuntivi, stanzette “dei giochi”, garage che “tagliavano” fondamenta. Tutto tipicamente italiano, visto e rivisto a ogni sisma, alluvione, maremoto e frana. E ancora, quei periti che non hanno fatto perizie, quegli uffici tecnici che hanno approvato varianti al progetto, quei direttori dei lavori distratti e quei progettisti disinformati. E poi, e ancora. Quella riunione cinque giorni prima del sisma a L’Aquila con il Gotha della Protezione civile in gran pompa e maglioncino con il tricolore, e quel «non c’è nulla da preoccuparsi». Dopo quattro mesi di sciame sismico. Dopo scosse ripetute ben oltre il quarto grado. Nessuno ha colpa, ha colpa il sistema. Siamo italiani, e lo sanno anche i sassi che nelle tragedie diamo il meglio di noi.


Il terremoto è scomparso. Viva la new town. E per new town si intende proprio new, con tanto di palazzotti ferro-cemento-vetro alla Segrate, o meglio alla Milano 2. E tanto verde, e laghetti, e fontane e vialetti. Pregasi osservare il depliant. E poi due slide di power point di numeri e sorrisi e istantanee ripulite con due colpi di Photoshop di belle figliole a passeggio con il Gran Sasso sullo sfondo. E dove, la new town? Su un bel piano di macerie tritate e mischiato all’amianto dell’ethernet (dicono faccia bene alle siepi di begonie) a due passi dalla tendopoli di piazza d’Armi. Subito. Immediatamente. In deroga, se serve.

Deroga, la parolina magica di ogni abuso e speculazione. Quanta fretta i giorni di Pasqua e Pasquetta nell’asportare macerie anche dai siti sotto inchiesta. E quanto silenzio, ora, dopo che la magistratura ha lanciato l’allarme con l’aiuto di qualche cronista che aveva deciso di consumare scarpe invece di lucidarsi i mocassini nella sala stampa. Chi ha chiesto quella rimozione di macerie? Chi l’ha pagata? Oggi, forse anche a seguito di quei giorni di lucida follia “smaltitoria” (come abbiamo raccontato nello scorso numero di left), un pool di 4 magistrati lavorerà in stretto contatto con il Viminale con l’obiettivo di effettuare analisi preventive e accertamenti per evitare infiltrazioni mafiose negli appalti per la ricostruzione del terremoto che ha colpito l’Abruzzo. L’organismo, ha annunciato il procuratore Antimafia Pietro Grasso, già immediatamente operativo.

«Non c’è ancora un allarme ma una legittima attenzione - ha detto Grasso - perché vogliamo evitare che gli sciacalli delle case si trasformino in sciacalli delle casse dello Stato. Vogliamo che i soldi della ricostruzione vadano a chi ne ha diritto». Giusto e sacrosanto. «Dobbiamo agire prima - prosegue Grasso - ed evitare di fare i processi». Il compito principale dei magistrati sarà prima di tutto quello di individuare eventuali prestanome per le organizzazioni criminali. «Il certificato antimafia è aggirabile, basta creare una società con dei prestanome e dunque dobbiamo vedere se nel campo delle relazioni dei criminali ci siano probabili prestanome». Come dargli torto? Però, per il nostro premier c’è sempre un però. E infatti l’allergia del Cavaliere per tutto quello che assomigli anche solo per sbaglio a un pubblico ministero gli fa scattare dichiarazioni automatizzate. Caro presidente del Consiglio, che cosa significa dire: «Ben vengano le inchieste ma per favore non perdiamo tempo, cerchiamo di impiegarlo sulla ricostruzione e non dietro a cose che ormai sono accadute?». Cosa significa, soprattutto, quando le ricostruzioni – insegna l’esperienza - si fanno come in Irpinia o nel Belice? E poi: come fa, caro presidente, ad affermare che la maggior parte delle case cadute erano vecchie, «costruite con mattoni, con pietre e non in cemento armato. Passando a bassa quota con l’elicottero abbiamo visto tetti con incannucciate, case costruite senza nessuna conoscenza delle tecnologie antisismiche?». Incannucciate? L’Abruzzo visto dall’elicottero sembra una sorta di paradiso tropicale? E l’Inail, la Casa dello studente, l’università, la caserma della Finanza, l’ospedale? Anche loro con i tetti fatti di incannucciati?

Il terremoto è scomparso. Viva il triumvirato. Aziendale, ovviamente. Caltagirone, Impregilo e Autostrade: sono loro gli unici, nel bene e nel male, a poter affrontare l’opera titanica della ricostruzione dell’insieme di strutture pubbliche e infrastrutture andate in fumo con il sisma del 6 aprile. Sempre che non si lanci una gara europea, e non al ribasso. Ma il premier vuole fare «una lista di nozze», non una gara. Lo ha annunciato mentre benediceva l’apertura di una microscuola in una tendopoli. Un ponte? Lo regala Sarkò. Un ospedale? Chi altri, se non quel simpatico (e abbronzato) di Barack? Il triumvirato edifica con il placet benevolo del presidente manovale e gli amici stranieri pagano i conti. Comodo, no? E il terremoto diventa, come ogni cosa in questo Belpaese a corrente alterna e con il “fido” in banca congelato, un fatto di costume. Una bella foto di gruppo con le macerie di Onna sullo sfondo e poi una nonnina in lacrime da abbracciare in diretta su Raiset.

Il terremoto è scomparso, meno che in Abruzzo. Ci sono ancora i segni di quello devastante del 1915, figuriamoci per quanto tempo ci trascineremo gli effetti di questo. Ci sono ancora 4.000 persone, in parte discendenti degli sfollati del ’15, che vivono nelle casette “asismiche” costruite quasi un secolo fa. Trentadue metri quadrati, senza bagno. Da un secolo. Dei circa diecimila esemplari di questi ricoveri costruiti tra il 1916 e il 1920 ne restano in piedi ancora 1.066 sparsi in 38 comuni, da Avezzano a Balsorano ,passando per tutto il Fucino. «Non si può passare sotto silenzio a riguardo dei feriti, un grave inconveniente - si legge nella relazione del 1915 -: per lo straordinario attaccamento al luogo natìo e alla proprietà, molti feriti ancora ben lontani dalla guarigione evadevano dagli ospedali ritornando lassù in condizioni disgraziatissime, senza tetto e senza mezzi di riparo; quelli scoperti furono riaccompagnati agli ospedali ma non è escluso che più d’uno abbia perduto così miseramente la vita». O semplicemente la saggezza popolare raccomandava di diffidare del “soccorritore”. Soprattutto quando il soccorritore in questione vuole salvarti a modo suo, presumendo i tuoi bisogni.


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