Telecom diventa spagnola. E chi se ne frega

par Daniel di Schuler
mercoledì 25 settembre 2013

Apriti cielo. Tragedia. Gli spagnoli si portano a casa Telecom e, a sentire i nostri bigotti variamente colorati, questo equivarrebbe alla fine del mondo.

Che poi non sai proprio così; che Telefonica si limiti a diventare il socio di maggioranza di Telco, che possiede solo un quarto di Telecom, poco importa. Quel che davvero conta è essere in prima fila a sventolare, un po’ tardivamente, il tricolore.

Guarda valuta e vigila, il buon Enrico Letta, che perlomeno ricorda come ormai Telecom sia un soggetto privato e che, come tale, può essere acquistato dal miglior offerente senza dover chieder permesso a nessuno. Il piddino Martella, chiede spiegazioni al governo. Di cosa, poi? Gli spagnoli han tirato fuori il grano e han comprato. Punto. Grillo chiede che siano usati i fondi per la Tav per mandare a monte l’affare; i suoi vogliono che si apra una commissione d’inchiesta. E si sa che una bella commissione fa sempre bene.

Ovvio che alzino lamenti anche le prefiche del Pdl. Barbara Saltamartini dichiara: “Non si può restare inermi a guardare”. Sì, giusto; incateniamoci alla ruota del telefono di nonna. Non fa mancare la sua commozione Niki di Puglia. “In questo paese è latitante qualunque politica industriale”, dice Narcisismo & Logorrea “e i guai provocati sono sotto gli occhi di tutti”.

E chi se ne frega, invece. Chi se ne frega di chi sia il padrone di Telecom, esattamente come non dovrebbe importare a nessuno chi è il padrone di Alitalia. Importano, ai cittadini e alle imprese, la qualità ed il prezzo del servizio reso. (E da cliente Telefonica, lasciatevelo dire, non è che si vada a migliorare granché). La politica, anziché occuparsi di quel che non dovrebbe essere affar suo, badi a questo: a che il mercato sia davvero libero e a che i diritti dei consumatori siano tutelati. Qualcosa che finora ha fatto pochissimo e malissimo o non ha fatto del tutto.

E che risate, a sentir parlare di “politica industriale”, come se fosse qualcosa di separato dalla politica senz’altro. Come se tra le cause del nostro disastro non vi fossero una burocrazia farraginosa e parassitaria, una legislazione fiscale assurda, l’inefficienza dei più elementari servizi, dalle poste ai trasporti merci su rotaia, il ritardo tecnologico delle nostre reti infrastrutturali …

Che risate, se la Commissione europea non si trovasse davanti, domani, un rapporto secondo il quale la competitività dell’industria italiana sta diminuendo (unica in Europa, assieme a quella finlandese) mentre la de-industrializzazione, da noi, avanza più celermente che negli altri paesi.

Abbiamo un paese dalle potenzialità enormi che sta morendo per la sua incapacità di cambiare. Perché le nostre categorie stanno abbarbicate allo scoglietto dei propri micragnosi privilegi. Perché il settore pubblico serve solo in minima parte a produrre servizi per i cittadini. Perché troppa della nostra imprenditoria ha pensato di poter continuare a fare quel che ha sempre fatto, con investimenti minimi , limitandosi a rispondere alla nuova concorrenza internazionale con la diminuzione del salario reale dei propri dipendenti. Sì: una Confindustria di geni che, con la complicità dei peggiori sindacati d’Europa, ha raggiunto l’ammirevole risultato di accoppare il proprio mercato. Il vecchio Ford, quando l’ha saputo si è messo a fare la trottola nella tomba.

Un paese, soprattutto, che non ha saputo darsi una classe politica decente. Anzi, una classe politica. Quella che si spaccia per tale, e adesso chiede commissioni d’inchiesta, per capire che c’è che non va dovrebbe solo guardarsi allo specchio.

 

Foto: Wikimedia


Leggi l'articolo completo e i commenti