TBC: la tubercolosi è in Italia

par Mauro Martini
mercoledì 24 agosto 2011

Una bambina è stata contagiata dalla tubercolosi al Policlinico Gemelli di Roma, e controlli vengono in queste ore effettuati su altri 1000 bebè ricoverati nelle struttura sanitaria capitolina. A causare il contagio è stata un’infermiera, ora sospesa dal servizio per curarsi, che era stata colpita dalla malattia infettiva mentre lavorava proprio presso il nido del Gemelli. La piccola, l’unico caso finora accertato, ha 5 mesi e le sue condizioni sono buone, ma i sanitari ritengono sia necessario mantenere l’allerta.

Il nostro è, da sempre, un Paese del garantismo, per tutto e per tutti. Agli immigrati è garantito il diritto al rimpatrio a carico del contribuente locale; ai Rom sono garantiti i campi organizzati con acqua, luce e servizi igienici a carico dei contribuenti locali; agli assassini stradali è garantito un omicidio colposo, al massimo aggravato da un dolo eventuale.

Ma in realtà, alla fine se la cavano più o meno tutti, sempre sulle spalle degli Italiani.

Il vino al metanolo di ventennale memoria, era garantito come di ottima qualità, perché prodotto con uve italiane e quindi senza nessun pericolo. In quel periodo era talmente garantita la inviolabilità del sistema di controlli interni, che le autorità disposero addirittura la riesumazione di alcuni poveretti morti in condizioni sospette nei periodi incriminati.

Stesso scenario, quando si parla, del batterio E. Coli, degli apocalittici scenari finanziari o delle influenze stagionali: l’Italia non ha nulla da temere perché è un paese forte, di tradizione che se l’è sempre cavata. E per questo vive una realtà dorata ed avulsa dal resto del mondo globalizzato al quale in realtà è indissolubilmente collegata.

Il nostro è un Paese come gli altri, solo un po’ più ipocrita. Dove nessuno ha il coraggio politico di mettersi in cattiva luce lanciando dei misurati e circostanziati messaggi circa il ritorno di una patologia che le nuove generazioni hanno solo sentita nominare.

 Occorre che prendiamo atto che in Italia c’è il ritorno della tubercolosi. Una circostanza segnalata da una coppia di genitori di una bambina malata e non palesata apertamente dalle nostre autorità sanitarie. Solo in questi giorni appaiono sui quotidiani i numeri che rimandano l’insorgere dei nuovi focolai già da qualche anno.

Quanta ipocrisia c’è nel vaccino che in questi giorni viene definito dalle stesse autorità scientifico-sanitarie “ad efficacia estremamente limitata” (Fonte Il Messaggero del 19 Agosto 2011, articolo di pag. 10), tanto da essere abrogato. Giusta decisione, quando all’epoca il nostro comportamento sociale aveva consentito, di fatto, l’estinzione della patologia in oggetto. Se era tanto inefficace, mi chiedo, per anni che cosa lo abbiamo somministrato a fare. Un vecchio discorso che riconduce forse al forzato benessere dei bilanci delle grandi società farmaceutiche?

Quanta ipocrisia politica nel non voler ammettere che questa fratellanza dei popoli non è sostenibile, né da un punto di vista economico, né da un punto di vista sociale e, come dimostrato in questi giorni, tantomeno da un punto di vista sanitario.

Sì, perché è proprio tra l’immigrazione che va cercata la fonte di questo ritorno infettivo. In letteratura medica, infatti, si legge che la tubercolosi polmonare ha vita facile quando trova malnutrizione e degrado igienico. E a tale proposito, nei giorni scorsi, alcuni tra i maggiori epidemiologi italiani indicavano la Romania come fonte storica della TBC.

Non me ne vogliano i sostenitori dell’immigrazione a qualunque costo, ma bisogna che prendiamo amaramente coscienza che non siamo in grado di dispensare ogni bene ed assistenza ai bisognosi di qualunque genere alla stregua di un opera pia.

Ad oggi l’Italia è un Paese fondato sui sacrifici e sul lavoro fatto dai nostri nonni, prima e dai nostri padri dopo. Ed ora che tocca a noi proseguire questa opera di crescita e costruzione di un Paese, vorremmo non farlo ricominciando da ciò che era già acquisito ed oggi, rimesso in pericolosa discussione da modi di vivere e pensare troppo lontani per essere chiamati con l’unico nome di Europa.


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