Sulla fabbrica Note sparse da Simone Weil
par Maria Rosa Panté
lunedì 17 gennaio 2011
Simone Weil (Parigi 1909 â Londra 1943) tra i grandi pensatori del ’900 è forse una delle più indicate a parlare di lavoro, di classe operaia e di fabbrica perché lei nella fabbrica c’è stata come operaia e per sua libera scelta, compromettendo ancor di più la sua precaria salute e soprattutto, come ebbe a dire, perdendo in seguito all’esperienza, la possibilità della spensieratezza.
Non starò a riportare cosa scrisse sulla sua esperienza, sulla sofferenza e sull’abbrutimento fisico della condizione dell’operaio, soprattutto quando il lavoro era a cottimo. Simone Weil lavorò alla Renault e anche alle presse!
Riporterò solo alcune considerazioni che, seguendo le discussioni sul referendum alla FIAT Mirafiori del 14 gennaio, ho trovato profetiche. Furono scritte dalla Weil in vari testi tra cui in particolare l'ultimo suo scritto “La prima radice”, che è una sorta di manifesto per la ricostruzione del mondo dopo la seconda guerra mondiale.
Preciso che, quando lo lessi, mi stupii che la Weil insistesse tanto sul tema dello sradicamento e sottolineasse per l'individuo l'importanza delle radici.
Ora che è esploso tra i giovani quello sradicamento, che lei vedeva già all'opera negli anni '40, sostituito da un misero surrogato che è l'attaccamento al territorio (di marca da noi prettamente leghista, ma diffuso in tutta Europa, dove dilaga il virus della xenofobia che è proprio frutto dell'insicurezza della propria identità), capisco che ancora una volta questa giovane donna aveva visto giusto.
Da “L'ombra e la grazia”
“La grande pena del lavoro manuale consiste nel fatto che si è costretti a sforzarsi, per tante e così lunghe ore, soltanto per esistere.”
Nel contratto si dà la possibilità di turni di 10 ore. Nelle otto ore si riducono le pause di dieci minuti.
Da “Lezioni di filosofia”
“Qual è la situazione del padrone rispetto a queste macchine? Anche lui è schiavo della fabbrica come gli operai”.
“La legge della vita economica attuale è l'accumulazione. Il padrone ha il potere di essere egoista, ma non quello di essere buono.
Dunque il nocciolo della questione è la grande industria e non il regime della proprietà (…) La questione non è quella della forma di governo, ma quella della forma del sistema di produzione”.
Marchionne è anche lui schiavo, di lusso mi si dirà, però è schiavo, il fatto però non consola per nulla...
“Conseguenze politiche di tale stato di cose: il nostro sistema sociale è fondato sulla costrizione. Gli operai lo subiscono, ma non possono accettarlo. La costrizione è incompatibile con la democrazia. È chiaramente impossibile che uomini trattati come cose nel mercato del lavoro e nella produzione siano trattati come cittadini nella vita pubblica”.
Infatti li si anestetizza fin da piccoli, mitridatizzati dal disimpegno, dal menefreghismo, dall'ignoranza paiono diventare inoffensivi. È pur vero che dal referendum di Mirafiori è apparso che qualcuno resiste.
“E' impossibile riformare lo stato se prima non si cambia il sistema di produzione”.
Questo è il punto fondamentale!
Da “La prima radice”
“Una riforma di importanza sociale infinitamente più grande di tutti i provvedimenti elencati sotto l'etichetta socialista sarebbe quella di trasformare l'indirizzo stesso delle ricerche tecniche. Finora non ci si è mai immaginati che un ingegnere (…) potesse agire se non per una doppia finalità: aumentare gli utili dell'impresa e servire gli interessi del consumatore. (…) Quanto agli operai che daranno le loro forze a quella macchina, nessuno ci pensa. Nessuno pensa nemmeno che sia possibile pensarci. (…) non solo non pensiamo al benessere morale degli operai, cosa che esigerebbe un troppo grave sforzo di immaginazione; ma non pensiamo neppure a non ferire le loro carni”.
Nel contratto, di investimenti non si parla, di ricerca men che meno. E là dove la ricerca c'è è orientata verso il prodotto, l'interesse, ora e sempre...
“La formazione di una gioventù operaia (…) implica anche un'istruzione, una partecipazione a una cultura intellettuale. È necessario che essa non si senta estranea nemmeno al mondo del pensiero”.
Concludo con questa notazione perché, mentre penso al contratto Fiat Mirafiori che mi sono letta, alla metrica del lavoro, ai gesti dell'operaio solo in funzione della macchina (e dunque a una tecnica che non si è certo evoluta come sperava la Weil), mi viene in mente il racconto d'un giovane insegnante in una classe prima di un professionale (la futura gioventù operaia) formata da 34 (trentaquattro: grazie Gelmini!) alunni. Questi ragazzi non partecipano alla cultura né al pensiero, si tirano addosso le sedie e mettono i petardi nella borsa delle professoresse. E allora capisco che è tutto tutto da ripensare e che accanto alla fatica dell'operaio ormai sta la fatica dell'educatore, ma non vedo la fatica del politico, non vedo davvero la fatica dell'imprenditore.
Forse Marchionne lavorerà 20 ore, ma per cosa? Fosse anche non solo per sé, per quale alto valore? Per quale futura società? Per quale idea di progresso?
Non un progresso che sarebbe piaciuto alla Weil, né a Leopardi... Ma son poi solo una filosofa e un poeta, e io un'insegnante (fuori ruolo per motivi di salute per giunta) e a Mirafiori solo operai: l'eroe del nostro tempo è il manager.
Triste eroe per tempi tristi.