Stiglitz e la crisi d’identità dell’America
par Damiano Mazzotti
lunedì 17 giugno 2013
Il premio Nobel Joseph Stiglitz ha pubblicato un saggio denso e appassionato dove analizza la fine dell’epoca della giustizia e delle pari opportunità per la maggioranza dei cittadini americani e non.
“Il prezzo della disuguaglianza” è uscito a febbraio 2013 con Einaudi e illustra in modo magistrale l’involuzione economica, sociale e politica americana. In estrema sintesi “La storia dell’America è semplicemente questa: i ricchi stanno diventando più ricchi, i più ricchi tra i ricchi stanno diventando ancora più ricchi, i poveri stanno diventando più poveri e più numerosi, e la classe media si sta svuotando. I redditi della classe media sono infatti stagnanti o in discesa e la differenza rispetto ai veri ricchi sta aumentando” (p. 11).
Dal 2008 al 2011 sono scomparsi circa 8,7 milioni di posti full-time e i posti di lavoro rimasti si stanno polarizzando: aumentano quelli a bassa e alta scolarizzazione e diminuiscono quelli adatti ai lavoratori delle classi medie. In parte la perdita di posti di lavoro è dovuta alla crescita dei mezzi tecnologici e della produttività e in parte alla crescita industriale di paesi come la Cina e l’India.
Per capire meglio la questione generale basta fare questo esempio: “I sei eredi dell’impero della distribuzione WalMart controllano un patrimonio di 69,7 miliardi di dollari, il che equivale alla ricchezza dell’intero ultimo 30 per cento della popolazione degli Stati Uniti”. E nonostante “il crollo dei prezzi delle azioni nella Grande recessione, l’1 per cento più ricco delle famiglie detiene circa 225 volte la ricchezza dell’americano tipico, pari ad almeno il doppio del rapporto esistente nel 1962 o nel 1983” (p. 12).
Comunque a mio parere l’ingiustizia non consiste solo in queste abissali differenze patrimoniali, che in molti casi rispecchiano in parte le inevitabili differenze di abilità naturali e sociali. La vera ingiustizia consiste soprattutto nel non garantire un livello dignitoso di sussistenza a tutti i cittadini, attraverso un reddito minimo, anche per evitare denutrizione, malattie e disperazione. Se le statistiche ci dicono che ci sono almeno 4 pretendenti per ogni posto di lavoro, dovrebbe risultare naturale pensare a come trovare il modo di dare un contributo per vivere anche agli altri.
Infatti negli Stati Uniti le assicurazioni sulla disoccupazione non riguardano tutti, sono a termine e di solito durano per un massimo di sei mesi. Perciò in molti casi il richiamo della malavita diventa quasi inevitabile. Del resto in America esistono pochi disoccupati, anche perché alla società del capitalismo estremo conviene avere molti carcerati per garantire lauti guadagni ai carcerieri privati (il tasso di detenzione statunitense è quasi dieci volte più alto rispetto a quello di un paese europeo). A ben pensare fornire un reddito minimo significherebbe risparmiarsi un sacco di spese per la gestione carceraria quotidiana di un detenuto, che può superare facilmente quello di un albergo a quattro o cinque stelle.
D’altra parte è forse giunta l’epoca giusta per abbandonare la visione antiquata del signoraggio statale sul lavoro, troppo simile alla condotta di un magnaccia nella gestione delle sue prostitute. Tassare chi produce è sempre controproducente e quindi bisogna arrivare ad azzerare la tassazione sul lavoro e su chi crea ricchezza e bisogna necessariamente aumentare tutte le tassazioni possibili sui vizi, su chi non crea nulla, cioè sulle rendite bancarie e minerarie, e sulle speculazioni di chi maneggia e sottrae ricchezza attraverso le manipolazioni dei mercati bancari e finanziari (nell’arco di 3 anni andrebbero tassate solo le banche e gli speculatori finanziari).
Stiglitz approfondisce inoltre la responsabilità dei grossi studi legali che con le loro pressioni sono riusciti a modificare in peggio delle buone leggi sui tassi usurai e sulla bancarotta. Invece le nuove leggi hanno trasformato le banche in associazioni fondate sull’appropriazione indebita e hanno aumentato “gli incentivi al prestito predatorio, perché i prestatori possono essere più sicuri di rientrare dal credito, indipendentemente dall’onerosità dei termini con cui è stato stipulato e dalla produttività del suo impiego” (p. 99). Almeno fino a quando il sistema non crollerà su se stesso.
In definitiva l’America non è più l’America e forse “Se non ci sono responsabili, se nessun individuo può essere incolpato di quel che è successo, significa che il problema sta nel sistema economico e politico” (prefazione). L’attuale sistema capitalista basato sull’ipertrofia finanziaria è sicuramente molto malato e sarebbe ora che qualcuno trovasse il coraggio di mettere alla gogna mediatica qualche banchiere dispotico e qualche burocrate leccaportafogli.
Joseph E. Stiglitz insegna alla Columbia University. Ha vinto il premio Nobel per l’Economia nel 2001, ha fatto parte del Consiglio dei consulenti economici di Bill Clinton e ha ricoperto gli incarichi di senior vice president e chief economist alla Banca Mondiale. Nel 2010 con Einaudi ha pubblicato “Bancarotta. L’economia mondiale in caduta libera” (recensito su AgoraVox il 14 gennaio 2011).
Note - www.opensecrets.org, è il sito del Center for Responsive Politics che conta i lobbisti delle banche commerciali, della finanza, delle compagnie di credito, delle assicurazioni e del settore immobiliare, e ha calcolato la presenza di cinque lobbisti per ogni membro del Congresso (p. 89).
Le banche e le società finanziarie hanno instaurato dei regimi di servitù da servizi: di solito “le compagnie che gestiscono le carte di credito traggono dalle percentuali sulle singole transazioni più denaro di quanto ne guadagna il grande magazzino dalla vendita dei suoi beni” (p. 159). E “nonostante le cosiddette riforme, le banche possono imporre interessi che si avvicinano al 30 per cento l’anno”. Nel caso dei prestiti agli studenti universitari, le banche accumulano profitti con un rischio molto basso: in molti casi il governo tutela i prestiti, negli altri casi non sono cancellabili perché a prova di bancarotta. Però il tasso di interesse caricato sugli studenti è altissimo (p. 314).
Negli Stati Uniti “i ritorni sociali medi delle spese del governo in Ricerca e sviluppo” superano “il 50 per cento, molto più elevati che in altre aree di investimento”, compreso il settore privato (p. 275).