Stefano Feltri e le sette verità sulla crisi italiana

par Damiano Mazzotti
venerdì 24 gennaio 2020

Il giornalista Stefano Feltri ha pubblicato un saggio molto chiaro e istruttivo: “7 scomode verità che nessuno vuole guardare in faccia sull’economia italiana” (Utet, 2019, 200 pagine, euro 16).

Prima di ogni cosa bisogna considerare che prima della crisi economica anglosassone, maturata dall’evaporazione dei mutui subprime del mese di agosto 2007, al fallimento della Lehman Brothers del 15 settembre 2008, “l’Italia ha avuto il peggior tasso di crescita al mondo negli anni 2001-2010, il declino economico che è iniziato negli anni novanta [dopo l’inizio di Tangentopoli, una crisi politica probabilmente pilotata a livello internazionale] è diventato evidente in tutto il suo dramma nel decennio successivo” (Emanuele Felice e Giovanni Vecchi, 2011, citati a p. 48).

Tra le principali concause del costante declino industriale si possono elencare queste: l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001; l’adozione dell’euro nel 2002 che ha impedito le solite svalutazioni competitive della lira intorno al 6 per cento annue (come dimostrato da Francesco Daveri analizzando il periodo 1977-1990); il quasi dimezzamento degli stipendi e dei salari dopo l’introduzione dell’euro, dovuto al mancato controllo dei prezzi dei beni, dei servizi e delle prestazioni professionali (all’inizio per la responsabilità del Governo Prodi).

Inoltre la struttura di piccole e medie imprese italiane ha difficoltà nel reperire gli investimenti, e il conservatorismo clientelare politico, bancario e imprenditoriale italiota ha fatto il resto dei danni. Ad esempio “nel 2010, in Italia, il settore dell’economia digitale contribuiva per il 5,7 per cento al valore aggiunto del totale dell’economia, un livello inferiore al 6,5 per cento della media europea. Sette anni dopo, nel 2017, la quota è incredibilmente diminuita: siamo scesi al 5 per cento” (p. 52). Quindi in Italia l’innovazione viene vista quasi come un pericolo o una meta ideale e fuori portata.

Molti imprenditori italiani, a causa della scarsa scolarizzazione, non riescono a gestire bene le nuove tecnologie al servizio delle imprese familiari, anche se assistiti da uno o più manager. Ora molte imprese hanno iniziato a superare molti problemi facendo rete a livello nazionale o locale, con ottime fiere: http://farete.confindustriaemilia.it/home; https://connext.confindustria.it/2020 (la prossima edizione si svolgerà a Milano il 27 e il 28 febbraio).

Alcuni studi hanno dimostrato che dal 1995 “il management diventa fondamentale e si riscontra una forte correlazione positiva: la produttività cresce soltanto se chi è al comando riesce a sfruttare i cambiamenti tecnologici” (Pellegrino e Zingales, p. 54; Schivardi e Schmitz, p. 57).

Comunque le famiglie italiane fanno sempre meno figli e diventa sempre più difficile per il titolare d’azienda trovare un figlio o un nipote interessato, predisposto e preparato, a ereditare la conduzione dell’azienda familiare. E gli studi economici e scientifici si sono sempre rivelati i più adatti e utili per affrontare gli inevitabili cambiamenti sociali, finanziari e tecnologici del mercato. Ma i ragazzi italiani continuano a preferire le lauree di tipo umanistico, senza magari integrarle con percorsi di studi o master in discipline più attinenti alle nuove esigenze del mercato del lavoro.

Non mi possono dilungare troppo su una questione intricatissima e nessuno al mondo può prevedere il futuro. Però moltissimi prezzi dei beni e alcune prestazioni professionali si stanno ricalibrando sugli stipendi reali degli italiani. Ma i costi occulti legati alle tariffe di energia elettrica, gas e acqua, hanno dilaniato gli stipendi, i salari, e anche i risparmi di molti pensionati e di molti lavoratori. Finiti i risparmi in molti perderanno anche la fiducia e la pazienza. Chi vivrà vedrà.

 

Stefano Feltri è nato a Modena nel 1984. Nel 2009 è tra i fondatori del “Fatto Quotidiano”. Oggi coordina il sito www.promarket.org (Stigler Center dell’Università di Chicago). Sul blog ci scrive anche Luigi Zingales (https://www.agoravox.it/Zingales-l-Italia-e-l-unione.html, recensione del 2015, https://www.agoravox.it/Manifesto-capitalista-Cittadini-e.html, recensione del 2012).

 

Nota personale – La bassa produttività italiana che perdura nel tempo, potrebbe rappresentare una caratteristica intrinseca delle imprese con pochi lavoratori. Forse è la mancanza di redditività il vero problema. Cosa in gran parte dovuta all’eccesso di burocrazia e dei relativi contributi che portano via un sacco di tempo. Il tempo è denaro, quindi… E si ragiona molto male quando devi passare troppo tempo a pensare alla lunga serie di pagamenti e di autorizzazioni da sistemare. Inoltre, nei ristoranti e negli alberghi, per ragioni strutturali la produttività non può aumentare più di tanto e i camerieri, i cuochi e chi si occupa delle pulizie non possono diminuire quasi per niente.

Nota sulla tassazione – Le imprese italiane devono sopportare la tassazione del lavoro tra le più alte del mondo: a un imprenditore un lavoratore medio costa il suo stipendio, più circa il 70 per cento in più, dato dai contributi pagati alle varie istituzioni statali e locali (comprese le spese sanitarie). Come si può pretendere di abbassare la disoccupazione con una tassazione a un livello molto parassitario e quasi insostenibile per molte microaziende?

Nota sulla spesa pubblica – La spesa pubblica procapite in Italia è più bassa degli altri paesi europei. Risulta più alta solo se si sommano le spese per gli interessi sul debito pubblico (circa 8 per cento del totale). Il vero problema risiede nel fatto con non abbiamo fatto gli investimenti che hanno fatto gli altri paesi. Abbiamo preferito mantenere alti il livello delle spese correnti e i sussidi assurdi al cinema e al sistema ippico italiano, “e quando è arrivata un po’ di ripresa internazionale l’Italia non è stata in grado di sfruttarla perché non aveva creato le condizioni giuste” (p. 114, Roberto Perotti ci ha provato: www.agoravox.it/Spending-review-Roberto-Perotti-e.html). 

Nota sulle tasse legate all’emergenza climatica – Le nuove tasse legate al riscaldamento globale potrebbero mettere ancora in crisi l’economia italiana, e non solo, come emerge dalle riflessioni di un pensatore fuori da ogni schema: https://urielfanelli.altervista.org (Sul bigottismo verde).

Appendice climatica: https://www.youtube.com/watch?time_continue=19&v=1YxmOpRAT4g. Chi ci guadagna con l’allarmismo sul clima? Il clima è un fenomeno misurato in maniera approfondita nei vari paesi da meno di 200 anni. Un vero scienziato può escludere tutte le cause non umane?


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