Spiegarsi l’Occidente e il suo razzismo

par Fabio Della Pergola
mercoledì 21 marzo 2012

Zygmunt Bauman, in Modernità ed Olocausto, sostiene che “l’Olocausto non sia stato un’antitesi della civiltà moderna e di tutto ciò che (secondo quanto ci piace pensare) essa rappresenta".

E ancora "Noi sospettiamo (anche se ci rifiutiamo di ammetterlo) che l’Olocausto possa semplicemente aver rivelato un diverso volto di quella stessa società moderna della quale ammiriamo altre e più familiari sembianze, e che queste due facce aderiscano in perfetta armonia al medesimo corpo”.

L’Olocausto come “altro” volto della civiltà occidentale che si accompagna al volto delle scoperte scientifiche e mediche, del progresso tecnologico, del benessere materiale, della sconfitta della fame (almeno in Europa), e infine delle libertà individuali e dei diritti civili. Aspetti della nostra civiltà cui nessuno vorrebbe rinunciare e cui sarebbe insensato rinunciare.

L’affermazione del sociologo polacco sembra però essere l’opposto di quanto comunemente viene detto sullo sterminio nazista dipinto come l'improvvisa irruzione dell’irrazionale che la ragione non avrebbe saputo “contenere”; il senso del suo pensiero diventa chiaro soprattutto quando esprime il suo rifiuto delle “professioni di fede come quelle che sostengono la bontà del controllo razionale sulle emozioni, la superiorità della razionalità rispetto a (che altro ?) ogni comportamento irrazionale”.

Ancora più nettamente sembra che sostenessero tesi simili Edmund Stillman e William Pfaff in The politics of hysteria: the sources of twentieth-century conflict, un loro libro del ’64: “Si può desiderare di negare tale connessione, ma Buchenwald appartiene all’Occidente tanto quanto Detroit: è impossibile rifiutare Buchenwald in quanto aberrazione casuale di un mondo occidentale fondamentalmente sano”.

Uno dei maggiori “impianti” finalizzati alla distruzione di vite è stato equiparato ad uno dei maggiori complessi industriali di produzione di macchine. Produzione sembra essere il termine che li lega: produzione di morte è stata ritenuta equivalente a produzione di cose. A monte sta ovviamente un profitto che si materializza però in risultati diversi (anche come significato più profondo): soldi nel caso degli imprenditori americani del settore automobilistico e realizzazione di un pianificato progetto di società nel caso degli ideologi del Terzo Reich.

Lo sterminio nazista non fu un incidente fortuito e "irrazionale" - ci viene detto - né le devastazioni dei totalitarismi sono un'aberrazione casuale nel percorso pensato come "linearmente evolutivo" della nostra civiltà, ma appartengono ad essa.

Tanto quanto ad essa appartengono il pensiero filosofico di origine greca e la religione cristiana. Vale a dire i due pilastri su cui essa si è fondata storicamente.

Dalla dignità umana riconosciuta in esclusiva al maschio adulto nella polis greca, alla costruzione dell’esclusività cristiana dell’ “Extra Ecclesiam nulla salus” che negava dignità umana al non-cristiano, fino al razzismo moderno: dalla limpieza de sangre nella Spagna del Cinquecento all'essere per la morte di Heidegger.

Il mondo occidentale, fondato sulla sintesi tra Religione cristiana e Ragione filosofica, così amata e propagandata dal Papa attuale, ha in sé, appena latente, la prassi sterminatoria: Buchenwald appartiene all’Occidente tanto quanto...

Non lo eliminerà il falso buonismo della morale cristiana né la presunta capacità "contenitiva" della ragione che ne sono, al contrario, la causa prima. La civiltà occidentale non si è affatto liberata dai campi di sterminio prossimi venturi perché affonda le sue radici nel profondo di una tragica ideologia eliminatoria.

Riflessioni provocate anche dalla discutibile proposta avanzata da Giubilini e Minerva sull’aborto “post-nascita”, alla fine di febbraio, di cui ho parlato in un altro articolo una decina di giorni fa e a cui peraltro ha risposto proprio sul sito del Journal of Medical Ethics la neonatologa Gabriella Gatti, con argomentazioni molto chiare.

Il nesso mentale fra Olocausto e azzardi bioetici ruota attorno alla definizione di “diverso”; termine ineliminabile parlando di sterminio nazista, ma elemento centrale anche del tema bioetico, che si interroga sulla definizione di ciò che è umano e di ciò che non lo è.

Sappiamo che la Chiesa cattolica rifiuta categoricamente l’idea che esista una differenza tra feto e neonato in termini di ‘vita’ umana: la vita inizia con il concepimento e termina con l’arresto finale del battito cardiaco. Si afferma una coincidenza senza smagliature tra vita e attività biologica, senza alcun salto degno di nota nel suo processo di sviluppo. Nessuna trasformazione è immaginata, in particolare, alla nascita. Al contrario si nega con assoluta determinazione che la nascita abbia significato nella differenziazione tra feto e bambino; tra essere in potenza ed essere attuale. Da qui il rifiuto di qualsiasi atto abortivo.

Allo stesso modo i bioeticisti affermano che il neonato non è “diverso” dal feto, (convinzione che trova una sponda tra l'altro, nella formulazione freudiana che nega anch’essa una qualunque discontinuità tra pre- e post- parto). Sostenendo che entrambi, pur essendo “esseri umani”, sono anche “non-persone”, affermano che il neonato, al pari del feto, può essere legittimamente “abortito”, cioè soppresso.

In questo caso il “diverso”, reso del tutto inesistente nella cultura cattolica, sarebbe il neonato - equiparato al feto - rispetto all’adulto dotato di coscienza razionale (la persona cui si riconosce diritto di vita); ma la diversità del neonato alla fine sembra essere considerata una diversità animale rispetto a quella pienamente umana dell’adulto. Questo pensiero permette infatti l'ipotizzata legittimità etica di sopprimere un bambino di poche settimane a fronte di indefinite "esigenze" dell'adulto.

Insomma, entrambe le formule sostengono che alla nascita non succede nulla, che tutto rimane come prima senza alcuna trasformazione, ma naturalmente lo Stato non la pensa così: autorizza l'aborto e condanna l'infanticidio, affermando con la legislazione corrente che alla nascita qualcosa succede.

In maniera più approfondita è stato detto che il processo di sviluppo evolutivo della pura biologia umana non corrisponde all’evoluzione della psiche umana che inizia e finisce con modalità e tempistiche diverse da quelle biologiche pur essendo ad esse strettamente connesse. La psiche si attiva al momento della nascita - è l'innovazione teorica proposta dallo psichiatra Massimo Fagioli fin dalla prima apparizione di Istinto di morte e conoscenza nel 1971 - e viene attivata dalla luce che entra direttamente in contatto con la sostanza cerebrale attraverso la rètina; termina poi, se ho correttamente interpretato l'elaborazione dello psichiatra dell'analisi collettiva, quando si esaurisce l'attività cerebrale, anche se il cuore meccanicamente continua a battere (tema di fine vita molto controverso e dibattuto a lungo in seguito al caso Englaro).

L’attività psichica distingue perciò la vita umana dalla non-vita di una biologia che resta comunque, ovviamente, biologia geneticamente umana. Viene quindi affermata una differenza netta tra il feto che non è vivo ed il neonato che lo è e viene così respinta con assoluta radicalità la logica dell’antropologia cristiana.

Ma nello stesso momento si rifiuta anche quell’astruso concetto di essere umano ‘non-persona’ (l’“essere” neonatale cui si nega il diritto di vita) di cui i bioetici hanno disquisito.

Il neonato non ha ovviamente le caratteristiche raziocinanti dell’adulto, ma è indiscutibile che abbia vita pienamente umana. Ciò che caratterizza l’essere del neonato rispetto all’essere adulto stesso è proprio la sua dimensione non razionale, quella che i filosofi bioetici ritengono non degna di un diritto di vita.

Esiste quindi una diversità del neonato rispetto al feto e una diversità del neonato rispetto all'adulto.

Solo con l’affermazione della nascita come inizio di vita psichica, cioè della vita umana, e con la definizione di “diverso” che da essa consegue, si può sostenere che le fondamenta su cui si regge la cultura dominante - la volontà di rendere inesistente il diverso - nell’Occidente cristiano e razionalista siano state messe realmente in discussione; e che si possa davvero pensare di poter relegare Auschwitz e Buchenwald nel passato.

Ad ogni convegno sullo sterminio nazista, con cronometrica regolarità (l’ultima a Firenze nel gennaio di quest’anno), qualcuno getta sul tavolo le tre domande inevase della riflessione storica sul tema: perché i tedeschi? Perché nel novecento? Perché gli ebrei?

Forse alle prime due domande, spiegando l'Occidente, adesso è stata data risposta. La nostra civiltà si fonda ideologicamente su un’istanza sterminatoria che non sopporta l'esistenza del 'diverso' proprio perché nega in tutte le sue componenti culturali la realtà della nascita umana; l'Occidente ha visto nel pensiero mitteleuropeo, tedesco in particolare, il suo apice e nel novecento il momento tragico della fusione tra pensiero e prassi politica.

Resta ancora in sospeso, senza negare nulla alle numerose ed ampie ricerche sul razzismo e sull'antisemitismo, l'ultimo interrogativo di non facile soluzione: perché gli ebrei?

Domanda obbligata in un giorno in cui l'antisemitismo ha ucciso di nuovo, con estrema freddezza e con estrema crudeltà, inseguendo dei bambini fin dentro la loro scuola.Chiunque sia stato è tornato a colpire gli ebrei, cioè i "diversi" per antonomasia nella lunga storia della cultura europea.

 

Post-scriptum

Interessante la discussione (riporto da Repubblica Firenze, a firma g.r.), ricordata in un libro recente, fra Thomas Mann e l'amico scrittore di origini ebraiche Jakob Wassermann, che nel '21 paventava che la condizione degli ebrei tedeschi fosse sull'orlo di un incendio. "Mann lo rassicurò sostenendo che la Germania in virtù della sua kultur non sarebbe mai diventata un paese antisemita, accusandolo di ipocondria poetica. Soltanto più tardi ammetterà il suo errore". Appunto.


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