Soltanto parole, parole tra noi

par Gianfranco Brevetto
venerdì 30 luglio 2010

Il brano è tra i più conosciuti della musica leggera italiana ed internazionale. Parole, parole è un classico che ha saputo ben invecchiare nonostante i suoi quasi quarant’anni di età. Il testo, firmato da uno dei più celebri autori italiani come Leo Chiosso e dal giornalista Giancarlo Del Re, deve il suo successo al duo Mina ed Alberto Lupo che lo interpretavano, nel 1972, come sigla finale di Teatro 10. Ha poi conosciuto numerosi versioni e cover tra le quali quella altrettanto celebre, in francese, di Dalida e Alain Delon.
 
Parole, parole, in effetti ben si adatta ad una coppia di professionisti con qualità differenti donna cantante e uomo attore, nello specifico, essendo la parte interpretata da Alberto Lupo, un parlato-recitato. La musica di Gianni Ferrio costituisce poi un colante d’autore tre le due parti. La versione francese, quella con la voce femminile ed indistinguibile di Dalida, gode di una traduzione molto fedele al testo originale.
 
Si tratta di due monologhi paralleli e a confronto che riproducono, con una certa dose d’ironia e di amarezza, due posizioni contrapposte sul peso e la funzione delle parole nell’ambito di una coppia, oramai evidentemente in crisi. Una donna che non accetta solo parole ed un uomo che esagera nelle romanticherie nel tentativo, forse, di riconquistarla. L’enorme successo di questo brano lo si deve , senza ombra di dubbio, al fatto che riproduce, in pochi minuti, una situazione reale vissuta in molte coppie, anche se evidentemente portata al paradosso dal testo di Chiosso e Del Re.
 
Quella dell’uso e della condivisone dei significati del linguaggio nella coppia e, più in generale, tra interlocutori è un tema d’attualità. Sono numerosi, infatti, gli articoli, sulla stampa specializzata e non che si stanno susseguendo negli ultimi anni. Si tratta di studi che riguardano generalmente differenze che interessano le aree celebrali e, stando sempre a questi risultati ottenuti da università inglesi ed americane, in particolare quelle relative al linguaggio. Confesso che per la mia formazione ho sempre visto con sospetto questo tipo di studi. Soprattutto quelli nei quali le differenze tra esseri umani vengono fatte risalire, in gran parte, a diversità di tipo genetiche. Quindi li tralascio per soffermarmi in ambiti da me maggiormente condivisibili.
 
Nel testo delle canzone questa coppia sta raccontando due storie sostanzialmente diverse, due momenti nei quali reciprocamente i due non sembrano riconoscersi. Facciamo un passo indietro per riferire di un episodio narrato nell’Odissea. Nel suo travagliato e decennale viaggio Ulisse approda nella terra dei Feaci. Qui, alla corte del re Alcinoo, incontra Demodoco, un aedo. Ulisse, che non rivela la propria identità, si commuove quando l’aedo narra proprio la sua storia, quella dell’eroe di Troia e del suo abile stratagemma. La reazione di Ulisse avviene proprio perche questi sente raccontare se stesso. In effetti sembrerebbe che proprio questo manchi nella coppia della canzone di Chiosso e Del Re. Ognuno racconta una storia nella quale l’altro non si identifica, che li lascia indifferenti proprio perché non vi si riconoscono. Noi viviamo, invece seguendo Ulisse, in cerca del nostro racconto, cioè nella ricerca del poter essere riconosciuti dall’altro.
 
Tra i singoli più venduti del 1966 vi è Sono come tu mi vuoi, tesi di Amurri e Jurgens, recentemente riproposta nella versione di Irene Grandi. Il testo è in un certo senso antitetico a quello di Chiosso e Del Re. Qui la coppia non esiste ancora. Ma lei (in questo caso), come atto, d’amore dice di essere proprio come lui la desidera, lo rassicura di essere proprio la persona adatta, che attende in silenzio che l’altro si accorga solo che è proprio “così come tu mi vuoi”. In poche parole: sono proprio la storia che tu vuoi che ti venga raccontata.
 
Pirandello, negli anni venti, ha scritto il dramma Come tu mi vuoi, dal quale credo che siano state tratte un paio di versioni cinematografiche. La trama si rifà ad un caso che all’epoca passò alla storia come quello dello smemorato di Collegno. L’ignota ne è la protagonista. Uno dei personaggi crede di riconoscere in lei Cia, la moglie di un amico , misteriosamente scomparsa. L’ignota, felice di ritrovare una sua possibile identità, recita:
 
“…non so più di vivere - un corpo, un corpo senza nome in attesa che qualcuno se lo prenda! - Ebbene, sì: se mi ricrea lui, se glie la ridà lui un’anima, a questo corpo che è della sua Cia - se lo prenda, se lo prenda, e vi metta dentro i suoi ricordi - i suoi - una vita bella, una vita bella - una vita nuova - io sono disperata!”
 
Ma, alla fine, temendo di essere utilizzata per risolvere intricati e loschi affari di famiglia, preferisce riprendersi la sua libertà, lasciando tutti col dubbio sulla sua identità piuttosto che metterla al servizio degli altri. In soldoni: sono io che, finalmente, decido quale storia narrare di me stesso.
 

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