Siria: verso lo scontro di civiltà (?)

par Fabio Della Pergola
giovedì 29 agosto 2013

Lo scontro fra Occidente e Oriente fa comodo a molti, a troppi, a Est come a Ovest; per motivi economici o per motivi strategici, per la supremazia anglosassone nel mondo o la per contesa supremazia all’interno dell'Islam. 

Tel Hai è un nome che ai più non dice proprio niente.

Ed è stato così perché riguarda altra gente, altre storie. Ma è invece un nome importante per le vicende mediorientali, che volenti o nolenti, ci riguardano tutti e, sembra, ci riguarderanno sempre di più.

Tel Hai è il nome di uno dei primissimi insediamenti di ebrei sionisti in Palestina. Fu costruito su terre comprate probabilmente da un latifondista arabo che viveva a Damasco o chissà dove. E, senza fare granché per provocarlo, si trovò al centro della Grande Storia.

Certo i primi sionisti erano consapevoli di svolgere un ruolo importante al centro della storia del popolo ebraico. Per quasi venti secoli l’idea di tornare nella Terra dei Padri era rimasta nella mente grazie ad un saluto molto comune: “L’anno prossimo a Gerusalemme”. Ma chiunque, per quasi venti secoli, ha pensato a Gerusalemme come ad un luogo dello spirito. Il luogo geografico, la città vera, era una méta reale solo per i più religiosi che sentendo arrivare l’ora della morte decidevano di andare a morire laggiù, nella città santa.

L’emigrazione ebraica in Palestina quindi c’è sempre stata, così come comunità ebraiche stanziali, di origini molto antiche, sono sempre esistite. Ed anche città a maggioranza ebraica come Safed o Tiberiade. Anche la stessa Gerusalemme, già alla metà dell’Ottocento, era una città a maggioranza ebraica.

Ma gli ebrei che emigravano dall’Europa orientale, per la miseria e per le persecuzioni sempre più numerose e sanguinose, avevano nella mente un’altra Terra Promessa che si chiamava America; esattamente come tanti altri europei, italiani in testa. Nonostante il programma politico sionista che si andava diffondendo, ma che convinceva pochi giovani, polacchi o russi, nazionalisti e di tendenze perlopiù fortemente “rosse” (ma non solo). In particolare dopo la fallita rivoluzione antizarista del 1905.

Tel Hai era questo: un piccolo insediamento rurale di ebrei russi nel nord della Galilea, vicinissimo all’attuale confine con il Libano, nei pressi delle alture del Golan, alle prese con una terra sconosciuta e difficile.

Nel maggio del 1916, a insaputa sia degli ebrei che degli arabi che stavano combattendo contro l’Impero Ottomano, inglesi e francesi siglarono il patto Sykes-Picot che stabiliva le aree di rispettiva “pertinenza” in cui le due potenze europee si sarebbero spartite le terre dell’ex impero turco.

Nel frattempo però gli inglesi avevano fatto allo Sceriffo dello Mecca, al-Husayn ibn AlÄ«, la promessa di un regno sulle terre conquistate ai turchi, in cambio del suo aiuto nella guerra che gli arabi combatterono sotto la guida di Lawrence d’Arabia (Corrispondenza Husayn-McMahon, 1915-16, peraltro sufficientemente ambigua e imprecisa da dare àdito a molti battibecchi successivi, in particolare sul Sangiaccato ottomano di Gerusalemme); ma gli stessi inglesi avevano fatto anche ai sionisti la promessa di facilitare un insediamento ebraico in Palestina (Dichiarazione Balfour, 1917).

I francesi comunque, in virtù degli accordi presi, occuparono la Siria. La linea di demarcazione fra la zona d’influenza inglese e quella francese passava proprio vicino a Tel Hai, che si venne a trovare in terra “francese”.

La ribellione araba contro il tradimento delle potenze europee portò a uno scontro violento e sanguinoso con le truppe francesi occupanti che ebbero facilmente la meglio. Ma il piccolo insediamento ebraico fu, suo malgrado, coinvolto nel conflitto e si dette una forma di autodifesa armata per via di alcuni attacchi arabi.

In realtà non esisteva ancora una dichiarata ostilità fra arabi ed ebrei; al contrario già nel gennaio del ’19 era stato firmato un accordo tra l’Emiro Faysal, futuro re dell’Iraq, e il Presidente dell’Organizzazione sionistica Chaim Weizmann. Due mesi dopo l’Emiro arabo scrisse anche al leader sionista Felix Frankfurter:

"Gli arabi, specie i più colti, vedono con profonda simpatia il movimento sionista. Stiamo operando insieme per un Medio Oriente riformato e rinnovato. I nostri due movimenti si completano a vicenda. Quello ebraico è un movimento nazionale e non imperialista. Il nostro è un movimento nazionale e non imperialista. C’è posto per entrambi, ed anzi penso che nessuno dei due possa avere successo senza l’altro".

Ma Faysal avrebbe dovuto essere il nuovo Re della Grande Siria (un territorio storicamente chiamato BilÄd al-ShÄm che comprendeva praticamente tutto il Vicino Oriente) e lo sgambetto dell’occupazione francese, oltre a causare un conflitto con i nuovi occupanti, rese inapplicabile, come previsto dall’accordo stesso, anche la cooperazione con i sionisti.

La notte del primo marzo 1920 un gruppo di arabi della milizia dell'Emiro, accompagnati da beduini seminomadi di un villaggio vicino, entrarono nella colonia ebraica alla ricerca, forse, di soldati francesi. Partì un colpo e la battaglia fra i difensori ebrei e la milizia araba durò a lungo. Ci furono sei morti fra i difensori e cinque fra gli attaccanti; Tel Hai fu ritenuta indifendibile ed evacuata la sera stessa; poi il villaggio fu bruciato dagli assalitori.

Qualche mese dopo ci furono violenti scontri fra gruppi etnici ormai contrapposti anche a Gerusalemme.

Il conflitto a fuoco di Tel Hai sembra essere stato il primo, vero scontro mortale fra arabi ed ebrei in Palestina e molti lo ritengono il preludio a tutto quanto è drammaticamente seguito nei novantatré anni successivi.

Oggi i francesi dicono di “conoscere bene la Siria” e c’è chi dichiara apertamente che davanti ad un attacco occidentale al paese governato da Bashar Assad le ritorsioni sarebbero pesanti e colpirebbero anche Israele

La Storia non si ripete mai (se non come farsa, disse qualcuno) e nessuno è così ingenuo da non sapere che la mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese è una concausa importante dello scontro tra Occidente e Islam.

Né possiamo dimenticare che Israele ha bombardato qualcosa di non chiaro, ma che evidentemente riteneva molto pericoloso per la sua sicurezza, pochi mesi fa proprio in territorio siriano; colpendo forse armi in transito, ma senza dare al dittatore siriano l'idea di essere lui stesso sotto attacco.

Un chiaro segnale della fortissima incertezza della dirigenza israeliana (ed anche dell'opinione pubblica) che non sa se sia meglio appoggiare un nemico certo, longa manus del Cremlino negli anni della guerra fredda e degli ayatollah in tempi più recenti, potenzialmente pericoloso soprattutto tramite l'alleato Hezbollah, ma conosciuto e tutto sommato stabile; oppure se non sia meglio favorire un'opposizione frastagliata e sconosciuta, un po' democratica, un po' laica, ma anche un po' troppo segnata da forti venature fondamentaliste ormai maggioritarie.

Nel dubbio la soluzione migliore, per lo stato ebraico, è che lealisti e ribelli si scannino a vicenda il più a lungo e il più sanguinosamente possibile, coinvolgendo il maggior numero di formazioni contrapposte, dai turchi ai curdi, da Hezbollah ad al-Qaeda, dai combattenti sciiti a quelli sunniti, dagli iraniani ai sauditi. E che se la vedano fra di loro. Magari, arrivati allo stremo delle forze, poi si siederanno ad un tavolo per trovare un accordo.

Ma c’è anche una lettura speculare alla tradizionale interpretazione che vede il conflitto israelo-palestinese come causa ed è quella che lo vede come conseguenza dello scontro tra Occidente e Islam.

Esattamente come ciò che, novantatré anni fa, avvenne sulla collina di Tel Hai, quando i primi caduti ebrei furono le vittime, non i promotori, dello scontro fra nazionalisti arabi e colonialisti europei; ma con, ovviamente, mille sfumature di torti e di ragioni in più di allora.

E non c'è davvero niente che possa impedire un accordo di pace concordato, con un punto di incontro a metà strada fra le esigenze delle parti, come hanno dimostrato ampiamente le trattative informali di Ginevra.

Se non fosse che lo scontro fra Occidente e Oriente fa comodo a molti, a troppi, a Est come a Ovest; per motivi economici o per motivi strategici, per la supremazia anglosassone nel mondo o la per contesa supremazia all’interno dell'Islam e, a catena, per il potere nella macroarea che va dal Mediterraneo all'India o in ciascun singolo stato. Fa comodo nelle lotte fra sette religiose e lobbies del potere laico, ad entità statali o tribali o familiari. Per affermare la dittatura delle banche o quella dei libri sacri, quella del petrolio o quella di ogni singola sfumatura interpretativa delle Sure; per reclamare i diritti individuali o quelli nazionali, il rispetto delle norme di legge o l’obbedienza al dettato divino.

L’Ovest - che ha praticato il colonialismo e l'imperialismo ovunque nel mondo, che ha causato due guerre mondiali nell’arco di mezzo secolo e, all'apice, si dice, della sua evoluzione culturale, ha perseguìto lo sterminio premeditato di un intero popolo - guarda con stupore e sdegno la sanguinosa caparbietà con cui i popoli arabi si scannano a vicenda non avendo né la capacità né la volontà di cercare una convivenza possibile.

E vuole pacificarli distruggendo le armi di uno dei due contendenti. Quello che, al momento, ritiene il più ostico e ostile a se stesso e ai suoi piani, per quanto confusi essi possano essere; rischiando di scatenare qualcosa di molto peggio di una guerra civile "circoscritta".

Ma chi si oppone, onestamente, all'impossibile pacificazione forzata, memore di altre operazioni drammaticamente simili, non ha da proporre altro che parole scontate oltre l'impotenza di stare a guardare una strage che ha raggiunto la terribile soglia delle 100mila vittime, combattenti e civili, uomini, donne e bambini. Che poi siano morte per armi convenzionali o per armi chimiche non è così chiaro quanto possa essere significativa la differenza.

Senza che nessuno, nemmeno per sbaglio, si sia degnato di proporre una manifestazione, un’opposizione, un boicottaggio. Un minimo gesto pubblico di rifiuto, di quelli che non si lesinano mai quando nel mirino c'è Israele.

Ma le dimensioni della strage non dicono, di per sé, che si tratta di una vasta, imponente, rivolta di popolo contro un dittatore spietato? Perché dunque la sinistra, che per questi motivi dimostra solitamente - e pubblicamente - la sua contrarietà, non si è mossa?

Forse perché sente di essere "forzata" a prendere parte per l'uno o per l'altro e non ha, o non ha più, gli strumenti culturali - quelli dell'umanesimo - per interpretare il mondo. Quindi o sta con l'Occidente - le cui manovre, sempre più ipocrite che sincere, rifiuta (non a torto) - o con l'Oriente, di cui fortemente diffida per la sua protervia contro i diritti umani. O rimane inerte, come in effetti sta.

Schiava di una lettura che impone o di partecipare entusiasticamente alle meraviglie del "primo mondo" civilizzato o, altrettanto entusiasticamente, di sventolare la bandiera di un "terzomondismo" in salsa paleomarxista, che ha però ormai chiaramente preso, da anni, una deriva ultrareligiosa e fascistoide.

Come al solito finirà che al primo balenare di missili scenderà in piazza contro l'imperialismo per l'aggressione angloamericana e, appena qualche razzo di risposta cadrà su Israele e lo stato ebraico reagirà, anche contro la scontata "aggressività" sionista, indicando come sempre nel conflitto israelo-palestinese la causa, non la conseguenza, dello "scontro di civiltà".

Poi, finalmente tranquillizzata nella sua coscienza terzomondista, tornerà a dormire il sonno del giusto, mentre l'Islam ricomincerà a ribollire pericolosamente, dilaniato da esigenze laceranti di evoluzione democratica e da retrogradi, ma intoccabili, dettami religiosi.

Drammatico, più che altro per chi sta sotto le bombe (ma culturalmente anche per noi).

A meno che il Ministro degli Esteri Emma Bonino non riesca a convincere il mondo che l'esilio di un dittatore (la stessa proposta che il vecchio Pannella fece a proposito di Saddam Hussein) è una soluzione da privilegiare al posto dei missili. Un esilio che cambierebbe le carte in tavola, senza imporre un vero e proprio cambio di regime e senza dare ai fondamentalisti più inaffidabili la chance di una vittoria sul campo.

Israele ci potrebbe forse mettere la firma subito, e probabilmente anche Abu Mazen, ma chi lo dice a Obama, a Cameron, a Putin o agli ayatollah di Teheran o anche allo stesso Bashar Assad ?

 

Foto: Wikimedia

 


Leggi l'articolo completo e i commenti