Siria: le donne in kalashnikov della rivoluzione. Dalla parte di Assad

par Giulia Usai
mercoledì 3 aprile 2013

“Sii pronta Siria, resisti Assad. Con il nostro sangue e con la nostra anima ti proteggeremo, Bashar”. Una schiera di donne in mimetica, allineate con precisione geometrica nell'area del campo di addestramento in erba sintetica, fissa con sguardo impietoso un punto indefinito davanti a sé, i capelli legati in code severe o in parte coperti da cappelli con visiera, mentre agita il pugno con la foga di chi declama un ideale in cui crede.

Qualche tempo fa avevo parlato del fenomeno di adesione di massa all'Esercito Siriano Libero da parte di cittadine siriane comuni, che in questi due anni di guerra civile hanno progressivamente abbandonato mestiere e quotidianità per entrare a fare parte della più grande forza armata di opposizione al governo.

Ma, parallelamente all'ingrossarsi delle fila partigiane al femminile, in Siria si assiste a una tendenza opposta: l'ingresso volontario di donne nel reparto femminile delle National Defense Forces, l'esercito di Assad contro il quale oppositori e oppositrici armati conducono una battaglia stremante.

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Prima unità per donne dell'esercito di difesa nazionale, conta circa 500 volontarie tra i 18 e i 50 anni, assegnate a ruoli paramilitari, dai posti di blocco ai compiti di supervisione su una forza armata governativa sempre più in difficoltà, indebolita dalla compattezza di un'opposizione organizzatissima.

 

Le aderenti si riconoscono sotto il nome di “Leonesse” (accettando un battesimo di facile retorica), e si riferiscono l'una all'altra con l'appellativo di “fedayat”, “martire”.

Vengono addestrate nella città di Homs, ponte tra le zone interne e il Mediterraneo, variegato amalgama di musulmani sunniti, alawiti e cristiani, nonché centro abitato siriano tra i più controversi, dove ancora una larga parte della popolazione supporta il regime.

Abir Ramadan, 40 anni, è una “leonessa” delle NDF. Racconta come è nata la decisione di arruolarsi: “Mio marito mi ha incoraggiato ad abbracciare la causa, e l'idea mi è piaciuta. Mi sono presentata al centro di reclutamento e sono stata facilmente accettata”. Tecnico in un laboratorio di radiologia, la donna spiega: “Prima non sapevo come imbracciare un'arma, e non stavo mai a casa da sola per paura di subire un attacco. Volevo imparare e aiutare. Mi sono prestata come volontaria perché il mio paese sta soffrendo”.



O ancora, Etidal Hamad: impiegata in un ufficio governativo e madre di tre bambine, anche la trentaquattrenne è stata indirizzata all'esercito dal marito. La motivazione maggiore che l'ha spinta a una scelta tanto estrema, tiene a precisare, è un sincero “desiderio di sostenere l'esercito e difendere la madrepatria”.

Come loro, tante. Il 23 gennaio venne diffuso un video che mostrava gli ordinati comparti di addestramento delle Lionesses for National Defense impegnati in un'esercitazione: marce, slogan pro Assad sciorinati a dare il ritmo, kalashnikov tenuti stretti al busto.


A differenza delle donne dell'Esercito Siriano Libero, che spesso hanno abbandonato completamente le occupazioni precedenti alla guerra civile, il servizio prestato dalle “leonesse” è part-time. A scelta, 4 ore da coprire durante la mattina o il pomeriggio, in modo che l'impiego possa conciliarsi alla professione abituale.



Nada Jahjah, una comandante in pensione che si è occupata nei mesi scorsi degli addestramenti, spiega come la scelta di eleggere Homs sede del campo di esercitazione sia connessa alle tragiche circostanze con le quali la memoria della città convive: “Questa non è una guerra normale. Non ha niente a che vedere col conflitto dell'ottobre 1973 contro Israele. Non è il nemico che abbiamo conosciuto. Stavolta il nemico viene dalla nostra famiglia, dai nostri vicini e dai paesi vicini, rifornendo armi e diffondendo pensieri fondamentalisti. Si uccidono e trucidano i siriani, è una guerra selvaggia”.

Questo la dice lunga su quanto sia manipolata (e manipolante) la propaganda autodifensiva promossa dal governo, che ha una sua versione decisamente originale sulle ragioni della mattanza serrata che esercita sin dagli albori della rivoluzione.



Abu Raimi, portavoce della Syrian Revolution General Commission, ha un'idea ben precisa del motivo per cui Assad ha deciso di creare un reparto femminile nel suo esercito: a suo parere, una scusa per mettere l'Esercito Siriano Libero nella condizione di uccidere donne, da presentare quindi al mondo come agnelli sacrificali che incarnino gli orrori perpetrati dai ribelli.

Mossa intelligente, chiaro: la morte di una donna, correlata da biografia sui figli lasciati orfani e sull'impegno in vita in nome di un ideale, smuoverebbe più di una coscienza.



Un attivista, operante ad Homs e intervistato dal The Washington Post via Skype, sotto lo pseudonimo di Majd Amer, descrive la spietatezza con la quale queste obbediscono al compito di supervisionare l'ordine dei quartieri: “Forzano le donne ad uscire dalle proprie macchine con deliberata brutalità, strappano i loro veli e le coprono di insulti. Le trattano come terroriste, le chiamano “Al-Qaeda”. Dicono: “Il velo non ti proteggerà”".

Intanto le adesioni alle “Leonesse” crescono; ad Homs, nel campo di addestramento di Wadi al-Dahab, continua a risuonare il grido “Allah, Suriya, Bashar wa bas” (Dio, Siria, Bashar: è tutto).

La situazione è complicata. Per quanto decisamente in numero minore rispetto all'opposizione, i sostenitori del governo mettono i bastoni tra le ruote al sanguinoso processo rivoluzionario in corso.


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