Siria: a chi giova una guerra?

par Giuseppe Casarrubea
lunedì 2 settembre 2013

Le ultime vicende di guerra civile in Siria, ci portano drammaticamente al centro di una questione nodale. I nuovi gendarmi dell’ordine e della sicurezza mondiale, gli Usa, la Francia e la Gran Bretagna in primis, stanno giocando una delle partite più sporche dell’ultimo ventennio. I

l terreno è lo scontro per l’impianto delle cosiddette democrazie, in regioni dove queste non hanno né testa né piedi e neanche un minimo di retroterra storico. Ma ciò conta poco per i depositari di tali modelli disposti a giocarsi tutto, forse anche contro le stesse volontà delle autorità costituite. Riconosciute o meno che siano.

L’Italia è stata coinvolta in pieno in queste guerre: in Iraq, in Afghanistan, in Libia, in Tunisia. Ancora oggi i sommovimenti sociali e la confusione politica che regnano in Egitto, con il ritorno del fantasma di Mubarak sul retroscena politico, ci dicono quanto sia difficile per i nuovi mandarini della guerra gestire il controllo della situazione.

Infatti, nel momento in cui la guerra da sotterranea diventa esplosiva e portata alla luce del sole, soltanto i fatti eclatanti, come l’uso delle armi chimiche da parte dei poteri internazionali costituiti, riesce ad innalzare il tasso di riluttanza dell’opinione pubblica verso ciò che accade, orientandola, come da manuale della propaganda occulta, verso gli interessi dei grandi manovratori.

Sta di fatto, però, che i tumulti di piazza Tahrir al Cairo, sollevati nel febbraio 2011 contro il vecchio regime, sono miseramente falliti, che Morsi e i Fratelli musulmani sono entrati in una morsa di fuoco, e che la cosiddetta primavera araba appare ormai da sola inadeguata a provocare cambiamenti decisivi. Ecco perché quella che sembrava una spinta occidentale dal basso è finita a coda di topo mentre è evidente, il tentativo, da propaganda occulta, di alzare il tiro sul potenziale di virulenza del nemico interno, al fine di creare lo shock necessario a determinare un intervento armato risolutivo.

Ipotesi, questa, in parte fallita a causa del voto espresso dal parlamento britannico contro la richiesta di autorizzazione preliminare all’intervento contro il regime di Damasco. Cosa che non era successa con Tony Blair nella guerra preventiva statunitense contro l’Iraq, accusato di fabbricare armi di distruzione di massa. Da Blair a Cameron si vede che la Gran Bretagna ha fatto passi avanti sulla strada di una minore dipendenza dagli Usa.

Lo scontro è molto più radicale e interno tra modelli nazionali opposti dentro il mondo arabo.

L’arma chimica che ha provocato più di mille morti, tra cui quattrocento bambini, nell’area di Damasco, avrebbe colpito il suo bersaglio, sparata da un missile terra-terra fatto partire per ordine di Assad. Lo ha detto John Kerry, segretario di Stato Usa, e l’affermazione ha tutto il sapore di essere non facilmente verificabile. Ma l’ipotesi è solo una delle tante e risulta meno praticabile rispetto a quella che dovesse sostenere che il missile sia invece partito da un velivolo, tecnologicamente avanzato in dotazione delle truppe ostili ad Assad. Cioè si è voluto colpire un’area ad alta densità abitativa di civili non belligeranti che meglio si prestava a provocare allarme umanitario, come elemento indispensabile allo stato d’animo generale che si voleva creare.

Non dimentichiamo che un pretesto analogo era stato introdotto nell’immaginario collettivo alla vigilia della guerra in Iraq contro il regime dittatoriale di Saddam Hussein, accusato di preparare bombe atomiche in laboratori poi dimostratisi inesistenti, e che analoga cosa succede anche oggi nei veloci accertamenti dei rappresentanti dell’Onu a Damasco.

A chi giova una guerra?

Giova alle élite parlamentari e ai capi dei governi che la decidono aumentando a dismisura il loro prestigio, in un mondo abituato a soggiacere alla forza e a respingere le insufficienze dei poveri. Giova alle imprese belliche, ai costruttori d’armi e di nuove tecnologie di distruzione di massa. L’Italia è uno di questi Paesi per sua antica formazione colonialistica, da quando Mussolini vinse la sua guerra contro l’Etiopia usando i gas nervini. E cosa analoga era avvenuta in Libia. Ma gli italiani non hanno, però, mai appreso i tragici fallimenti di tali loro “predilezioni” contro altri popoli, e piuttosto che trarre insegnamento dagli errori del passato, si sono fatti sempre dei complessi d’inferiorità, per giustificare il loro interventismo. Naturalmente in nome della pace.

Ad aggravare il quadro oggi si sono aggiunti altri elementi di complessità e di rischio. Primo tra tutti che la Sicilia, al centro del Mediterraneo, allo snodo tra mondo arabo e vecchio continente, Occidente ed Oriente è nel cuore strategico del riarmo, come dimostra l’ammodernamento bellico, con le nuove tecnologie che si stanno collocando a Niscemi, con Sigonella che diventa la base operativa del più grande centro mondiale per l’uso dei droni, con l’acquisto degli F35 e con la trasformazione delle terre di Sicilia e delle sue coste in luoghi of limit riservati alle esercitazioni militari. Fatti che abbiamo già sperimentato con l’uso dell’aeroporto di Trapani-Birgi, a principale base operativa contro la Libia.

Ma questa volta le cose potrebbero mettersi in modo molto diverso, e l’Italia farebbe bene a tenersi fuori dai soliti giochini dei furbi.

 

Foto: Freedom House/Flickr


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