Siria, Iran, Stati Uniti: prospettive di disgelo

par Persio Flacco
venerdì 4 ottobre 2013

Barack Obama sembra essersi deciso a distinguere anche nei fatti le priorità della lobby sionista statunitense dagli interessi del suo Paese.

 

Con la dissennata "linea rossa" sull'uso delle armi chimiche Obama si è trovato ad un passo dal coinvolgere gli USA in una nuova guerra in Medio Oriente: contro la Siria e, molto probabilmente, contro l'Iran, che con la Siria ha un trattato di mutuo soccorso militare.

Forse, mentre i suoi generali aspettavano il suo segnale per l'attacco, ha visto in prospettiva il grave deteriorarsi dei rapporti con la Russia e anche con la Cina; ha visto il dissenso degli americani verso la guerra che, se ignorato, diventava qualunquismo distruttivo; ha visto la débacle delle alleanze con i paesi europei, la cui tenuta stava per soccombere alla diffusa coscienza delle opinioni pubbliche che una guerra contro Siria e Iran avrebbe aperto prospettive terribili per il Vecchio Continente, che si sarebbe trovato il caos alle porte di casa e probabilmente anche dentro casa.

Solo i governi di Francia e Regno Unito, i due più influenzati dalla lobby sionista, hanno resistito fino all'ultimo all'opinione contraria dei loro concittadini, pronti a scatenare il conflitto a fianco degli USA. Poi, rimasti isolati: troppo esposti nel loro stagliarsi contro il loro Paese, si sono dovuti arrendere.

E si sarà chiesto per quale motivo stava trascinando il suo Paese, reso fragile dalla crisi economica e dalle abnormità della grande Finanza, verso il baratro di un conflitto dalle conseguenze potenzialmente nefaste, perfino contro il parere degli stessi vertici militari.

Per abbattere il regime di Assad e mandare al potere una congerie di feroci integralisti acerrimi nemici dell'occidente?

Per abbattere un regime, quello siriano, che da 40 anni non pone particolari problemi di sicurezza né agli USA né a Israele; che ha tollerato senza particolari rappresaglie i raid israeliani sul presunto reattore atomico nordcoreano e sui carichi di armi destinati a Hezbollah; che ha perfino messo a disposizione della CIA i suoi specialisti in torture per "trattare" gli ospiti delle extraordinary rendition di Bush.

Per trovarsi coinvolto in un conflitto contro l'Iran? Un Paese che da 200 anni non dichiara guerra a nessuno? Che ha la più antica comunità ebraica del mondo e la più numerosa del Medio Oriente dopo Israele? Un Paese di oltre 70 milioni di abitanti, vasto e con un territorio difficile tale da escludere qualsiasi possibilità di concludere una guerra con un successo?

E tutto questo nel momento in cui l'interesse statunitense per il Medio Oriente sta scemando, essendo gli USA diventati esportatori di gas ottenuto con la tecnica del fracking e promettendo di diventare il primo produttore di petrolio al mondo entro il 2020. Proprio adesso che l'interesse strategico americano si è spostato nel settore Asia Pacifico, verso il contenimento dell'espansionismo economico e politico cinese.

Nel giro di poche ore Obama ha rischiato di passare alla Storia come il presidente che ha distrutto gli USA, e che forse ha scatenato un conflitto mondiale, per motivi futili, incomprensibili, contrari agli interessi del suo Popolo.

Quando Obama ha annunciato all'ultimo momento di voler rimettere al Congresso la decisione sull'attacco alla Siria, attacco motivato dalle "prove" elaborate dai servizi israeliani, da Israele si è levato un coro di voci di protesta, di recriminazioni, perfino di insulti al suo indirizzo.

E l'AIPAC, la più potente delle lobby sioniste americane, soprannominata "il gorilla da 800 libbre" per l'influenza che esercita sulla politica estera statunitense, si è subito attivata inviando 250 lobbisti a fare pressioni sul Congresso affinché desse il suo consenso all'attacco, e mobilitando i suoi opinionisti per bollare Obama come incapace di fronte all'opinione pubblica americana.

A Obama deve essere apparsa chiara la gigantesca entità dell'errore che stava per commettere portando gli Stati Uniti verso obiettivi pericolosi e contrari ai loro interessi prioritari, contro obiettivi di altri: della lobby sionista innanzitutto, e delle petromonarchie mediorientali, interessate a sgombrare il campo dai regimi laici come quello siriano per consolidare il loro potere politico e religioso sul Medio Oriente, e ha scelto di svincolarsi dalla stretta.

D'altra parte quello che oggi Obama sta facendo, col perseguire pragmaticamente la via diplomatica senza pregiudiziali ideologiche, è riannodare il filo di una strategia annunciata col suo storico discorso all'Università del Cairo nel 2009 e interrottosi nel 2011.

In quella occasione Obama promise un nuovo inizio nei rapporti col mondo islamico, e ciò inplicava da una parte togliere il sostegno degli USA dei regimi arabi che ne garantivano gli interessi e dall'altra forzare l'alleato israeliano a risolvere il conflitto con gli arabi palestinesi. Il filo si interruppe a causa del fallimento del tentativo di ottenere da Israele la conclusione di un accordo di pace definitivo con i palestinesi.

La lobby sionista nel 2011 promosse l'invio a Gerusalemme di una folta delegazione di congressisti per rassicurare il regime israeliano che il Congresso degli Stati Uniti si sarebbe opposto a qualsiasi tentativo del Presidente di obbligare Israele alle trattative di pace, e questo mise la parola fine alla strategia obamiana.

Ora, dopo che in modo apparentemente estemporaneo e al culmine della tensione, Kerry ha posto come condizione per la sospensione dell'attacco a Damasco la consegna dell'arsenale chimico a disposizione di Assad: offerta prontamente accolta dal regime e dal suo tutore russo, si è aperta un via di fuga diplomatica rispetto a quella apparentemente obbligata della guerra.

L'Iran ha colto a sua volta il nuovo corso statunitense offrendo anche sul versante del contenzioso nucleare una sponda all'Amministrazione Obama per smarcarsi dalle pressioni guerrafondaie della lobby sionista e da quelle delle petromonarchie. Ma non è ancora detto che il nuovo corso impresso da Obama alla politica estera degli Stati Uniti abbia successo.

Esiste infatti una eventualità che lo obbligherebbe a invertire di nuovo il senso di marcia. Se Israele lanciasse un attacco contro la Siria, e la risposta siriana fosse più efficace di quello che si pensa, Obama potrebbe esimersi di entrare in guerra a sua volta per difenderlo? Difficile.

Oppure, se Israele lanciasse uno strike contro gli impianti nucleari iraniani, e se i missili iraniani iniziassero a cadere sulle città israeliane, Obama potrebbe lasciare il suo alleato da solo? Difficile.

Dunque non è affatto certo che l'accenno di distensione appena iniziato possa continuare, che la guerra sia scomparsa dall'orizzonte.

 

Foto: U.S. Department of State/Flickr


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