Si scrive Black Bloc, si legge disinformazione

par Lorella Di Vuono
martedì 12 luglio 2011

Disinformare significa nascondere i fatti. Distogliere l’attenzione da ciò che non voglio porre all’interesse dell’opinione pubblica, parlando d’altro, semplicemente. Disinformare sembra essere l’imperativo di buona parte della stampa nazionale, con il ringraziamento dei soliti noti. Disinformazione è l’unica parola che viene alla mente sfogliando i giornali, all’indomani della manifestazione No Tav dello scorso 3 luglio.

“La guerra dei No Tav: 5 arresti e 200 agenti feriti – Pesantissimi scontri al cantiere dell’Alta velocità tra forze dell’ordine e manifestanti, che utilizzano tecniche paramilitari” (Il Giornale, 4 luglio 2011). “No Tav, guerriglia in Val di Susa cantiere assediato, furia black bloc – Feriti 190 agenti e una decina di ragazzi, 4 arresti. Grillo choc: eroi” (Il Messaggero, 4 luglio 2011). “Scontri e feriti al cantiere Tav «Assalti in stile paramilitare» - Colpiti 188 agenti, lavori fermi. I no global: operazione riuscita” (Il Corriere della Sera, 4 luglio 2011). Questi sono solo alcuni dei titoli sensazionalisti, seguiti da articoli superficiali e qualunquisti, comparsi sui quotidiani nazionali.

La notizia degli scontri, dominante sulle prime pagine dei giornali, ha completamente offuscato l’altra notizia: settantamila persone si sono incontrate in Val di Susa per manifestare contro il delirante progetto dell’Alta velocità. Ma la disinformazione non si esercita solo attraverso la “distrazione di massa”, si esercita anche mediante l’uso distorto della lingua, la creazione di falsi luoghi comuni. “Si scrive No Tav, si legge BR”, con questo titolo Il Giornale è riuscito a vaporizzare in poche parole decine di migliaia di persone che pacificamente hanno manifestato. Così scompaiono i fatti, nel qualunquismo di chi risolve tutto in un elenco di buoni e cattivi. Nella nebbia della disinformazione, nell’ignoranza di chi nemmeno sa chi sono i No global, e certo non ricorda chi furono le Brigate rosse, si perdono le voci degli italiani.

Focalizzare l’attenzione sugli scontri ha permesso alla stampa, con rare eccezioni (vedi l’articolo di Mercalli su Il Fatto Quotidiano), di tacere sulle ragioni che il 3 luglio hanno portato migliaia di persone a urlare “No Tav”. Parlare dei sassi scagliati da alcuni contro le forze dell’ordine, ha fatto dimenticare che quello che la polizia stava assediando è un museo archeologico del neolitico. Urlare all’assalto dei black bloc ha evitato di informare sulla totale inutilità di questo progetto da un punto di vista d’interesse nazionale che migliaia di italiani, invece, stavano denunciando.

Perché il Tav non servirà a nessuno. Non servirà all’economia, con la sua spesa da 22 miliardi di euro. Non servirà al trasporto delle merci, perché la linea già esistente non solo è sufficiente a sopportare il traffico attuale, ma ne permetterebbe molto di più, se non fosse che il traffico merci su quella direttrice è da anni in forte calo. E non servirà agli abitanti della Val di Susa, che vedranno il loro territorio irrimediabilmente deturpato, violato nell’equilibrio del suo sistema idrogeologico.

Una bufera di polemiche si è scatenata contro le parole di Beppe Grillo che ha definito “eroi” i manifestanti del 3 luglio. Tutti pronti a prender le distanze, a proclamarsi indignati. Avrei voluto leggere la stessa indignazione quando a essere definito “eroe” fu Vittorio Mangano, mafioso. Non il popolo No Tav. Un popolo eroico, sì, per gli abusi e le menzogne che ha sopportato in questi anni, nel silenzio totale della politica. Quella stessa politica che, bipartisan, non ha mai accettato il confronto. Eppure dovrebbero spiegarlo, i politici, perché nessuno, dati alla mano, è mai stato capace di convincere i valsusini della bontà di questo progetto. Forse perché nessuno è ancora stato in grado di fornire motivazioni tecniche e scientifiche valide a supportarlo? 

Accanto al popolo, eroico, della Val di Susa, non c’era la politica, ma tanti piccoli eroi che si sono uniti in marcia per manifestare contro l’ennesimo scempio ai danni di un patrimonio comune. Esponenti della ricerca scientifica, sindaci, pensionati, lavoratori, studenti: settantamila persone, provenienti da tutta Italia, che non vogliono vedere i loro soldi gettati in un progetto che, se mai portato a termine, non darà alcun beneficio alla collettività. 

Ci sono stati degli scontri, è vero. E la violenza non ha mai giustificazione. Mai. Da qualunque parte essa arrivi. Chi il 3 luglio si è staccato dal corteo autorizzato per seguire la strada di Ramats, sapeva a cosa stava andando incontro. Lo sgombro del 27 giugno ne era stato un anticipo. Ma arrivare a quella rete, toccarla, era un gesto simbolico, la rivendicazione di un diritto: significava riprendersi La Maddalena. Mentre alcuni salivano lungo i boschi, tutti guardavano, aspettando. Quando è stato dato l’annuncio che la meta era raggiunta, un unico coro ha esultato. Ma prima ancora che le mani arrivassero a toccarla quella meta, i fumogeni erano già partiti. Chi è stato colpito non sono i black bloc ma giovani e anziani, lavoratori e pensionati che nonostante ne conoscessero i rischi hanno deciso di raggiungere la zona rossa.

Ci hanno raccontato di gruppi eversivi organizzati alla lotta, ma si sono dimenticati di dire che a essere colpite dai fumogeni sono state anche donne anziane, lasciate a terra dalla polizia che passava oltre rincorrendo chi fuggiva nei boschi. Non ci hanno detto che quei fumogeni non solo erano sparati ad altezza uomo, ma contenevano lacrimogeni CS, quindi vietati perché tossici. Che ciò che veniva lanciato dagli idranti non era acqua, ma liquido urticante. Non hanno scritto che la polizia ha respinto i manifestanti anche con l’utilizzo di una ruspa. Che i poliziotti erano dotati di pistole che sparavano pallottole di gomma, come quella sequestrata dai manifestanti a un agente caduto e poi barattata con il rilascio di uno di loro.

Sui giornali si sono dimenticati di scrivere che sono stati gli stessi manifestanti a soccorrersi fra loro, con i valsusini che medicavano i feriti e indicavano la strada da seguire, nei boschi, per fuggire all’attacco. Perché quello della Polizia in Val di Susa è stato un attacco. Lo mostrano i video su you tube, le fotografie, l’intervista rilasciata da Fabiano Di Berardino, lasciato tre ore su di una barella sotto il sole prima di essere trasportato in ospedale. Perché la stessa risonanza data alle testimonianze delle forze dell’ordine non è riconosciuta a quella dei manifestanti? Non erano black bloc quelli in Val di Susa, erano giovani e meno giovani che per esasperazione, sbagliando, hanno reagito in modo violento allo stato di assedio della Valle.

Quando Fabio Poletti su La Stampa scrive che “Il ministro dell’Interno Maroni dall’alto della sua carica, fa il resoconto di quello che è successo e giura che i manifestanti volevano il morto”, mi chiedo quanto sia voluta l’amara ironia che si cela dietro questa frase. Perché a ricoprire l’alta carica di ministro dell’Interno, vi è un uomo condannato in via definitiva per resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale. E mi sfugge l’assurda logica secondo cui chi lancia sassi, dopo aver ricevuto lacrimogeni, deve essere accusato di “tentato omicidio”, come ha dichiarato Maroni, mentre chi ha azzannato il polpaccio di un poliziotto può diventare, nel silenzio generale, il ministro dell’Interno. Quanto al morto, mi assumo la responsabilità di affermare che tra quelle settantamila persone che si trovavano in Val di Susa, non ve ne fosse nemmeno una che aspirasse a vedere la morte di un uomo.

Di fronte al “sincero ringraziamento”, rivolto dal ministro Maroni alle forze dell’ordine e al capo della polizia Antonio Manganelli (l’ironia della lingua), per “come hanno saputo gestire la situazione”, penso a quei duemila agenti in assetto antisommossa. Uomini mandati a eseguire un ordine, a combattere una guerra che non è nemmeno la loro. Perché e così che in Italia, dopo il G8 del 2001, si gestiscono le grandi manifestazioni contro il potere. Si manda la polizia, semplicemente. Mentre la politica rimane seduta in poltrona a guardarsi lo spettacolo di un Paese ferito e del suo grido soffocato. Ancora una volta.

Quattro manifestanti restano in carcere, mentre un gruppo di avvocati annuncia un esposto contro la polizia per i mezzi usati durante gli scontri. A uno dei ragazzi che ha partecipato al corteo del 3 luglio, ho chiesto se non avesse paura di tornare a manifestare dopo ciò che è successo in Val di Susa. Mi ha guardato sorridendo, sa che non basterà lo stato di assedio della Valle per fermare la rivolta dei No Tav. Perché quando la politica rimane sorda, la resistenza civile diventa un dovere.


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