Senza giustizia e con poco buon senso

par Daniel di Schuler
sabato 17 novembre 2012

La nostra giustizia civile, secondo uno studio della Banca Mondiale, non è neppure da terzo mondo. È più inefficente di quella del Malawi e della Sierra Leone e questo rappresenta ormai un onere insostenibile per la nostra economia.

La Banca Mondiale, su istanza del governo Monti, cui va dato atto di essersi reso conto della gravità del problema, ha condotto uno studio sui tempi ed i costi della giustizia civile in tredici città italiane. Ne è risultato che un imprenditore, per risolvere una controversia di valore pari a due volte il nostro Pil pro-capite (misura usata per avere dati omogenei tra i vari paesi) deve affrontare 41 fasi processuali, attendere 1400 giorni e spendere il 26,2% della somma oggetto della disputa. Se poi il poveretto deve rivolgersi al tribunale di Bari, ultimo della classifica, l’attesa si allunga a 2.022 giorni (sì: cinque anni e mezzo) e la spesa sale fino al 34,1%. Non stupisce, confrontando questi dati con quelli del resto d’Europa, che il nostro paese sia tanto poco attraente per gli investitori stranieri.

In media, infatti, nell’UE i processi sono meno complessi (consistono di 32 fasi) e costosi (“solo” il 21,5% della cifra in discussione) e, soprattutto, quasi tre volte più rapidi, richiedendo, in media, 547 giorni. Restringendo il nostro confronto alla Germania, dove i processi durano 394 giorni (un quinto che a Bari) e costano solo il 14,4% del valore della controversia, le nostra inadeguatezza è ancora più evidente. Allargandolo al resto del mondo, arriviamo a vergognarci: la nostra giustizia civile è 155 esima in classifica. Non è neppure da terzo mondo; paragonabile solo a quella di paesi sull’orlo della disperazione o in via di disfacimento. Detto altrimenti, nella patria del diritto, che conta quattro volte gli avvocati della Francia (ma questa potrebbe essere una causa del problema), risolvere un contenzioso è più difficile, lungo e costoso che in Bolivia, in Iraq o in Sierra Leone.

“Doing Business in Italy 2013”, questo il titolo del rapporto della Banca Mondiale, ha studiato anche altri fenomeni che rendono difficile fare impresa e creare lavoro, nel nostro paese. In una classifica che comprende 185 paesi, l’Italia è risultata essere il 103esimo per facilità di ottenimento di una concessione edilizia, il 107esimo per tempi di allacciamento alla rete elettrica, il 104esimo per accesso al credito e il 131esimo per facilità nel pagamento delle imposte. 

Una situazione insostenibile, che rende del tutto irrilevante il vantaggio competitivo procurato alle nostre aziende da uno dei costi del lavoro più bassi d’Europa e che è la causa prima della nostra trentennale mancanza di sviluppo. Di questo non sembra rendersi conto la nostra politica, prontissima a disquisire di massimi sistemi, ma che non sembra voglia occuparsi di qualcosa di tanto triviale come rendere la nostra pubblica amministrazione (dai tribunali agli uffici tecnici comunali) efficiente perlomeno quanto quella di un normale paese sudamericano. Di questo non si rendono conto i nostri populisti, a partire da madama Camusso, quando strillano il loro livore anti-europeo e anti-montiano. Questo ignorano bellamente i professionisti dell’indignazione; i nostri rivoluzionari più meno da salotto, lesti a denunciare i limiti della democrazia rappresentativa e dello stato “liberal-social-democratico”; una realtà che conoscono forse per aver visto al cinema, dato che l’Italia, a questo punto, pare non riesca neppure ad essere uno stato senz’altro.

La Banca Mondiale, tornando alla giustizia, visto come altri paesi sono riusciti a risolvere problemi analoghi ai nostri, ha offerto al nostro governo che glieli aveva richiesti (ed è la prima volta che un paese del G7 lo fa, con gran scandalo, immagino, dei nostri complottisti) alcuni suggerimenti; tra le altre cose, l'approvazione di leggi ad hoc che disciplinino la risoluzione della cause arretrate, la promozione del processo telematico, la specializzazione dei tribunali (in commerciale e civile) e il monitoraggio delle attività dei magistrati.

Si tratta di norme che dovrebbe introdurre chi verrà dopo Monti, se avrà la bontà di volersi continuare ad occupare della cosa. Molto, ad ogni modo, si può fare nel quadro delle leggi esistenti e con le scarse risorse di questi tempi di crisi. La dimostrazione l’ha fornita il Presidente del Tribunale di Torino che nel 2001 ha lanciato un programma per la risoluzione delle cause arretrate; un’iniziativa coronata da successo, dato che in quella città i processi ora si risolvono in 855 giorni (due anni in meno della media nazionale) e costano addirittura un buon 5% meno della media Europea. Come ha fatto questo benemerito? Ha usato un approccio marxiano alla giustizia civile o si è rifatto alle teoria neo-con del diritto commerciale? Ha chiesto mezzi speciali al ministero o l’assunzione di un centinaio di nuovi collaboratori? Ha fatto mettere su tutti i fascicoli un’etichetta con la data di avvio del procedimento, li ha fatti classificare in base a questa, quindi ha ordinato a giudici e cancellieri di dare priorità alle cause più vecchie e di continuare sempre così, occupandosi prima dei casi arrivati per primi. Tutto qui. Ha usato il buon senso; una risorsa che nel nostro paese sembra ormai prossima all'esaurimento.


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