Scuola. Di riforma in riforma, da male a peggio

par Daniel di Schuler
giovedì 4 settembre 2014

Sulla scuola ci raccontiamo tante fandonie. Le pretendiamo vere, per non criticare l'istituzione che ci ha almeno in parte formato, ma fandonie restano. 

La prima e più evidente tra queste è quella che vorrebbe che la scuola sia, come dovrebbe essere, una fonte di cultura. Cito spesso, a questo proposito,lo storico dell'arte inglese Kenneth Clark e il suo “la cultura di un uomo è la somma della sue curiosità”. Se è così, e io sono convinto sia così, la nostra scuola ha in buona misura fallito il più importante dei propri compiti.

Di che parlo? Secondo gli ultimi dati Istat, la metà dei diplomati italiani (e oltre il 20% dei laureati), una volta completati gli studi, non legge neppure un libro l'anno. Possiede un “pezzo di carta” ma non ha, con tutta evidenza, la minima curiosità; non ha, appunto, la minima cultura.

Un risultato che non migliorerà pagando un poco di più gli stessi insegnanti per fare, con gli stessi metodi, il lavoro che fanno ora.

Ancora peggio l'idea di estendere gli orari delle lezioni. Questi, se per caso, andrebbero accorciati, non allungati. Poche materie fondamentali, per relativamente poche ore settimanali, e tanto tempo libero proprio per soddisfare quelle curiosità gli insegnanti dovrebbero esser riusciti a stimolare. L'unica cultura di cui abbia senso parlare, rimarchiamolo, nasce da un personale percorso di ricerca. Il resto? Nozioni di cui dopo pochi anni non resta nulla. Detto questo, va benissimo che, come promette Renzi, le scuole siano aperte giorno e notte, per offrire un centro d'aggregazione ai ragazzi. Sarebbe disastroso, però, se le ore passate in più a scuola fossero dedicate ad attività comunque gestite dagli insegnanti. Non si cresce, solo imparando a fare quel che ci viene detto quando ci viene detto. Non si capiscono appieno le proprie potenzialità interagendo con gli altri in un mondo controllato e in un modo codificato. Già oggi, vediamo ragazzini con agende fittissime; le cui giornate, tra scuola, corsi ed attività sportive, non prevedono momenti di tempo libero diversi da quelli passati davanti ad uno schermo. Vogliamo insistere su questa strada? Non prendiamoci in giro, poi, lamentandoci della mancanza di spirito d'iniziativa dei giovani. A quel modo si allevano solo polli di batteria. O bravi soldatini.

E si arriva al seconda colossale fandonia; quello secondo cui la scuola sarebbe uno strumento di promozione sociale. Statistiche alla mano, se per caso, nel nostro paese è accaduto l'esatto contrario: ad un aumento della scolarizzazione è corrisposta una riduzione della mobilità della nostra società.

Un caso? Se si ricorda dove come e perché è nata la scuola moderna, assolutamente no. E' figlia della battaglia di Jena, la scuola dell'obbligo. Il governo prussiano, vista la pessima prova fornita dai propri militari, fece proprie le idee di Fichte a riguardo e creò degli istituti statali in cui i giovani imparassero quel poco che era loro necessario per funzionare al meglio come sudditi e soldati. Dove fosse insegnato loro a leggere, scrivere, far di conto e, soprattutto, ad ubbidire restandosene al proprio posto. La nostra scuola, col professore in cattedra, le interrogazioni, i voti, ecc. ecc., è la copia sabauda di quelle scuole prussiane e svolge perfettamente il compito per cui queste furono disegnate due secoli fa: è uno strumento per il controllo delle energie giovanili; non un paio d'ali, ma un laccio. Una palla al piede che diventa ancora più pesante per i ragazzi infilati in quelle che, lasciate stare la retorica, non citate il fortunato singolo caso, sono a tutti gli effetti delle scuole di serie B; per tutti quelli che si ritrovano, già a 14 anni, ad avere gli orizzonti serrati da una formazione “tecnica”.

In questo, la maggiore integrazione tra scuola e mondo del lavoro proposta dal Governo promette solo di peggiorare le cose. Assolutamente inutile come strumento contro la dispersione scolastica (di grazia, nel Sud, dove questa raggiunge il 25%, i ragazzi a quale inesistente lavoro dovrebbero abbinare lo studio?) solo rende ineluttabile l'approdo dei giovani tecnici ad un disciplinato lavoro dipendente. Solo garantisce che i figli di quelli che oggi stanno sotto, là sotto restino.

P.S. Inserire in ruolo 150.000 precari, costerà ogni anno 600 milioni in più di quel che si spende ora per le corrispondenti supplenze. Con una cifra del genere si potrebbero comprare i libri di testo ad un paio di milioni di ragazzi provenienti dalle famiglie più disagiate. Bisogna considerare il triste presente dei precari? Dispiace per la loro situazione, certo. Lasciare che un solo ragazzo di 12, 13 o 14 anni abbandoni la scuola è però un delitto. Dare un piccolo ma significativo pre-salario, legato alla frequenza ed al rendimento, ai ragazzi provenienti da quelle stesse famiglie a “rischio di esclusione sociale” (una su due di quelle siciliane, tanto per fare un esempio), servirebbe davvero a frenare la dispersione scolasticae costerebbe inoltre una frazione minima di quanto è speso per mille altri e meno nobili scopi. Inutile pensarci. I ragazzi non votano, le loro famiglie non sanno. E poi non vorremo che davvero i figli degli operai, magari disoccupati, diventino dottori.

Foto: Leonardo Caforio/Flickr


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