Scienza e potere: l’incubo italiano

par Damiano Mazzotti
venerdì 4 settembre 2009

Nel libro “La scienza negata” di Enrico Bellone si discute della carenza di investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle università e delle aziende italiane (www.codiceedizioni.it, 2005). Bellone insegna Storia della Scienza presso l’Università di Milano e dirige le riviste “Mente e Cervello” e "Le Scienze".

Nel primo dopoguerra la cultura italiana utilizzò le vecchie strade culturali fasciste: “l’esaltazione dei valori umanistici, la predilezione della cultura letteraria rispetto a quella scientifica, la “libertà di ricerca” intesa astrattamente e dogmaticamente, furono tratti condivisi dal crocianesimo, dalla cultura cattolica e dagli intellettuali più influenti del PCI” (Roberto Maiocchi, 1980).

Con il boom economico degli anni ’50 si iniziò a fare i primi seri investimenti in ricerca nazionale e internazionale: l’Italia trovò una sua collocazione europea nell’ambito dei laboratori del Centro europeo di ricerca nucleare (CERN) a Ginevra. Si crearono il Centro studi ed esperienze (CISE) partecipato da Montecatini e Fiat, e il Comitato nazionale per l’energia nucleare (CNEN) diretto da Felice Ippolito. Si potenziò l’Istituto nazionale di fisica nucleare (INFN) di Edoardo Amaldi etc...

Ma in pochi anni crollò tutto: Enrico Mattei, che giocava una complessa partita sul fronte petrolchimico, fu ucciso con un sabotaggio aereo. Felice Ippolito fu diffamato, arrestato, condannato in primo grado e poi graziato, ma i suoi sogni e il futuro dell’Italia erano già stati dilaniati. Questi sporchi e miserabili giochi politici legati ai vecchi poteri industriali e finanziari, colpirono anche Domenico Marotta, che dirigeva l’Istituto Superiore di Sanità, dove lavoravano due Premi Nobel (Daniel Bovet e Ernest Chain). Inoltre nel 1969, il neonato Laboratorio internazionale di genetica e biofisica (LIGB), diretto da Adriano Buzzati-Traverso fu occupato dagli studenti politicizzati e alla fine il direttore fu costretto a dimettersi (andò all’UNESCO).

L’ignoranza della classe politica continuava e perpetuava gli antichi pregiudizi di derivazione religiosa e contadina. Si proseguiva nel rifiutare le nuove conoscenze e i relativi cambiamenti per paura di mettere in crisi i valori e l’ordine precostituito.


Ancora oggi investiamo in ricerca e sviluppo meno della metà di quello che investono gli altri paesi europei: siamo rimasti invischiati nel circolo vizioso del nanismo produttivo (Luciano Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, 2003). E già nel 1973 la situazione nel nostro Paese era molto critica: “l’educazione scientifica degli italiani resta fra le ultime al mondo… l’università si avvia a essere un’università solo di insegnamento… Che cosa potrà insegnare un professore che non può compiere ricerche? Esclusivamente la scienza di ieri, è ovvio, e la scienza di ieri non dà noia a nessuno” (Giuliano Toraldo di Francia). Purtroppo, con circa il 66 per cento dei cittadini italiani che non legge libri e quotidiani, è difficile far comprendere certe esigenze sociali ad un’opinione pubblica televisiva.

La Scienza di Stato e quella “imposta” più o meno indirettamente dagli imponenti finanziamenti delle multinazionali segue questo tipo di ordine mentale: “se vuoi la scienza io te la darò, io ti farò dono dei tuoi strumenti, ti presterò i miei docenti, riceverò i tuoi studenti. Io ti darò la tua scienza quotidiana, ma tu non desidererai la scienza d’altri perché questa è la scienza, non avrai altra scienza all’infuori della mia, onorerai la scienza e il potere” (Giulio Alfredo Maccacaro).

Inoltre “l’Italia è agli ultimi posti tra i paesi industrializzati per numero di ricercatori e per numero di dottori di ricerca in campo scientifico e tecnologico. È l’unico dei paesi dell’Unione europea dove nel corso degli anni novanta la percentuale dei ricercatori sul totale della forza lavoro è diminuita invece di crescere” (Claudia Di Giorgio, Cervelli export, 2003). “Siamo così giunti al bivio: o investiamo risorse finanziarie e umane nella ricerca di base, oppure ci trasformiamo in una appendice turistica del mondo civile. Una grave responsabilità grava allora sulle spalle dei nostri scienziati. Essi hanno, in un momento come quello attuale, la possibilità e il dovere di intervenire nelle istituzioni della politica, nei meandri della cultura di massa, respingendo in entrambi i settori, il degrado causato dalle rappresentazioni deformate della conoscenza che si stanno sempre più rinvigorendo. Ci potremmo riprendere solo facendo leva su scelte forti e strategiche, da programmare in una cornice europea e con scelte coraggiose sul piano finanziario e organizzativo” (Bellone).

Però Rita Levi Montalcini ha le sue ragioni nell’affermare che non tutto ciò che si può fare si deve fare. E oggi conosciamo tutti i rischi del nucleare, “mentre non è così per le produzioni chimiche più complesse, che si moltiplicano senza controllo alcuno. Non è così per l’ingegneria genetica, i cui sviluppi sono totalmente in mano ad alcune multinazionali. Non è così per l’intelligenza artificiale” (Alfredo Reichlin). Cosa sappiamo poi a riguardo delle nanotecnologie?

Comunque la nostra qualità della vita viene migliorata quasi esclusivamente grazie all’impegno degli ingegneri e degli scienziati e sarebbe bello mettere alla prova un Governo di questo tipo in Italia (noi non abbiamo proprio nulla da perdere). E forse i giovani cittadini italiani hanno iniziato ad usare la testa: sono in aumento le iscrizioni ai corsi di laurea scientifici e finalmente gli studenti si sono resi conto che il Politecnico di Milano garantisce più opportunità di lavoro rispetto all’Università Bocconi. “È solo a favore dei disperati che ci è data la speranza” (Walter Benjamin).


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