Saviano, non sei Pasolini

par Pietro Orsatti
sabato 18 dicembre 2010

Ieri abbiamo pubblicato (su Gli Italiani, ndr), riprendendola, una lettera di Roberto Saviano agli studenti dopo la giornata del 14 dicembre. Perché era una notizia che proprio Saviano intervenisse su un tema così delicato come gli scontri di Roma. Una notizia, che rischia di mettere in ombra un’altra notizia.

Chiarisco subito un punto ancor prima di iniziare a rispondere e commentare la lettera dello scrittore napoletano. Ogni volta che la violenza prende il sopravvento è una sconfitta. Ogni volta che la rabbia si fa scontro guerresco perdono tutti. La violenza non è una risposta, non è accettabile. Mai. Va condannata. Sempre, in qualsiasi forma venga espressa. Che sia quella dei manifestanti o quella delle forze dell’ordine.

E ancora. La violenza è una forma di lotta (se la possiamo chiamare così) vecchia e soprattutto mai vincente. La storia di come sono stati liquidati i movimenti degli anni ’60 e ’70 lo ha ampiamente dimostrato.

Ma la violenza va analizzata. Per capire. Per non essere sconfitti come società. Questo deve essere un impegno ineludibile per chi si pone come voce. Per chi ha seguito e peso mediatico e intellettuale (se questo oggi ha un senso) come Saviano. Noi dobbiamo capire. Fotografando la realtà attraverso tutte le sue sfaccettature. Senza fretta. E soprattutto dopo aver analizzato davvero quello che è successo.

Chiariamo subito una cosa. Saviano ha scritto probabilmente di impulso senza aver analizzato bene quello che era avvenuto (e stava avvenendo da tempo) in piazza. Fidandosi di quei primi lanci di agenzia (e ricostruzioni affrettate) che raccontavano una mezza verità. Ovvero, che gli scontri di Roma vedessero protagonisti solo gruppetti organizzati e violenti. Dei presunti Black Bloc, per intenderci. È andata così, ma non solo così.

Saviano ha raccontato solo un pezzetto di realtà. E forse, ancora peggio, ha offerto una formula assolutoria a chi ha deciso, non ora ma da mesi, l’assoluta esclusione dai processi economici, culturali e sociali di un’intera generazione e di interi territori e la repressione sistematica di ogni dissenso.

Ha sbagliato, Saviano, nella sua semplificazione. Prima di tutto perché il “consenso” da parte di migliaia di persone alle cosiddette avanguardie di alcune centinaia di manifestanti che hanno condotto gli scontri era evidente. Poi, perché questo diffuso senso di esasperazione sfociata in insurrezionalismo lui lo dovrebbe conoscere bene. Perché è lo stesso delle popolazioni campane che si vedono imporre le discariche sul proprio territorio senza alcuna possibilità di avere voce su un atto che avrà conseguenze enormi e devastanti sulla propria vita personale e collettiva. Se ti mettono la discarica a forza sotto casa va bene ribellarsi e se invece ti cancellano (per censo e età) dal tuo paese no? Diciamolo chiaramente che questa generazione che è andata in piazza con modalità anche sfociate in condannabili atti violenti è esclusa come lo sono esclusi i territori di Terzigno e Bagnoreale. E dalla stessa cultura politica. Non è un caso, tanto per fare un esempio, che molti manifestanti venissero proprio dai blocchi di Terzigno, dai presidi de L’Aquila, dai tetti delle fabbriche esternalizzate. Non è un caso e per questo è necessario uno sforzo in più dal semplice dare voce alla propria penna senza aver capito, per distanza e per mancanza di analisi, cosa sta accadendo in un’intera generazione e sui territori più devastati del nostro paese. Non solo il 14, ma da anni.

“Mi si dirà: e la rabbia dove la metti?”, scrive Saviano. Non solo la rabbia, Saviano. Non è stata solo quella. Qui non si tratta solo di rabbia, ma per molti si tratta ormai di sopravvivenza. C’è un’intera generazione esclusa dal lavoro, dalla cultura e dalla politica. Che non ha riconoscibilità né sociale né tantomeno politica. Quando hai tassi di disoccupazione giovanile al 40%, quando chi può fugge da questo paese e chi non può rimane ai margini a subire una sempre più sistematica esclusione la questione si fa “di pancia”. Come commenterà, Saviano, quando arriveremo agli assalti ai supermercati? Non ci siamo ancora, ovviamente, ma cosa accadrà se dovessimo prendere la china della Grecia e del Portogallo per manifesta incapacità della politica di creare senso di responsabilità nazionale e contemporaneamente di sottovalutare una crisi che sta schiacciando l’intero continente?

Troppa fretta, Saviano, di emulare il famoso editoriale di Pierpaolo Pasolini dopo i fatti di Valle Giulia nel 1968. Pasolini aveva una conoscenza della società italiana che per ora lo scrittore napoletano non ha. E strumenti culturali e politici che gli consentivano anche giudizi così controcorrente. Strumenti e conoscenza che, è evidente, Saviano non ha.

Troppa fretta di disegnare categorie. Troppa fretta di essere buoni, rassicuranti, dalla parte “giusta”. Troppa fretta che ha impedito allo scrittore di capire. Di capire che il lavoro che bisogna fare è molto più grande e difficile che un semplice lavoro letterario. Soprattutto per chi ha così peso sull’opinione pubblica.

La condanna della violenza, lo ripeto, è e deve essere forte. Senza sé e senza ma. Ma non basterà ad assolverci. Perché se non siamo in grado di capire davvero da dove viene questa violenza, il vuoto in cui è stata fatta precipitare un’intera generazione e non solo da questo governo, rischiamo di dare continuità al modello sociale dell’esclusione. E al perpetuarsi della violenza.

Caro Saviano, non sei Pasolini. Cerca di essere te stesso senza cercare modelli altri appresi per semplificazione


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