Rogo al campo Rom: razzismo d’Italia

par Fabio Della Pergola
lunedì 12 dicembre 2011

La notizia è una non-notizia. E' la banale riproposizione di un fatto che si ripete, con poche varianti, da secoli. La caccia al diverso.

Una giovane donna afferma di essere stata stuprata e accusa uno “zingaro”. Detto fatto, un campo rom delle vicinanze viene assaltato e bruciato.

Così i quotidiani di domenica, ma possiamo con facilità ricordare anche i numerosi episodi di zingare accusate di aver cercato di rapire dei neonati. Se non ricordo male non c’è mai stato nella storia italiana un rom condannato dalla magistratura per ratto o tentato ratto di bambini. Furti tanti, ma rapimenti no. Mai, nemmeno uno, che io sappia.

Commentando l’ultimo fatto le cronache aggiungono che la ragazza “stuprata”, poco dopo l’attacco all’insediamento degli zingari confessa di essersi inventata tutto: “Non sono stata costretta ad avere quel rapporto sessuale”. E il sindaco di Torino si affretta a mettere i paletti: “questa città non è razzista”. La città no, ma un bel po’ di suoi abitanti sì, però. E meno male che non c’è scappato il morto.

Che un reato sia ‘presunto’ e che anche un colpevole sia ‘presunto’ fino a che polizia e magistratura non hanno completato gli accertamenti e individuato i rei condannandoli alle pene previste dai codici, sono cose che non interessano proprio la folla sovreccitata dalla massima onta che una comunità può subire: la violenza sulla “sua” donna, tanto più se giovane e magari vergine (e il fatto che la ragazza abbia preferito raccontare di aver subìto uno stupro piuttosto che rivendicare il diritto ad una sua consapevole sessualità la dice lunga sulla mentalità della tribù).

 

 

 

 

 

 

 

 

La vendetta del gruppo non sopporta i limiti imposti dalla legge: né che l’uso della forza è e deve restare esclusiva dello Stato né che la colpa è sempre individuale – di chi commette il reato – non può mai essere collettiva.

"Zingaro, parola da cancellare", titolava Adriano Prosperi su left del 2 dicembre, commentando con soddisfazione la bocciatura da parte del Consiglio di Stato dell'ideologia della "emergenza nomadi" sbandierata a più non posso da Maroni e camerati. L'emergenza rom era una bufala ha sentenziato il Consiglio di Stato, pochi giorni prima della vicenda di Torino. Parole al vento.

D’altra parte se la Lega, partito di governo fino a ieri, ma oggi tornata (o costretta a tornare) alle origini barricadere, da vent’anni predica la punizione collettiva, insulta sghignazzando persone di altra etnia (ricordate la “signora abbronzata” con cui Calderoli si rivolse a Rula Jebreal?), porta maiali a passeggio su campi destinati ad una moschea, toglie le panchine dai parchi pubblici perché ci si siederebbero gli “islamici di m...”, dopo anni di questo andazzo c’è proprio da stupirsi se le baracche rom vengono bruciate?

Ma dare la colpa alla Lega sarebbe molto riduttivo. Sarebbe fare polemica politica spicciola senza andare oltre, cioè negando la questione culturale che attraversa da duemila anni la nostra società.

Duemila anni non è un numero a caso. Sappiamo che i Romani non facevano né questioni etniche né questioni religiose. Il loro Pantheon contemplava idoli di diversissime origini, tutti ugualmente rispettabili per loro. Al trono sono saliti imperatori di diverse etnie, che di solito finivano assassinati, ma per questioni di potere non certo per motivi razziali. L’importante a quei tempi era essere civis romanus, cittadino dell’Impero. E non c’erano motivi di razza a escludere questa possibilità.

Con l’affermarsi del cristianesimo si venne a creare una cultura universalistica nella forma, non diversa dalla logica imperiale precedente; una religione a cui ogni essere umano poteva convertirsi, ma esclusivista nella sostanza: ogni essere umano doveva convertirsi. Doveva, se voleva salvarsi (alla fine dei tempi, naturalmente). Fuori dalla Chiesa non c’era salvezza.

Questo piccolo particolare svela la logica cristiana: la necessità della conversione per la salvezza delle anime giustificava l’ampia opera missionaria, ma anche i non rari casi di conversioni forzate, il rapimento di bambini per poterli battezzare (l’ultimo è il famoso caso Mortara), fino alla soppressione dei corpi per la salvezza dell’anima. Così morirono eretici e streghe.

Ma la conversione dei “diversi” non bastava. Nella Spagna del XV secolo si fece strada l’idea che il convertito (perlopiù un ebreo) poteva mentire, essere falso e infettare la società veramente cristiana: quella che aveva il sangue puro. La questione diventa storia di sangue, di genetica. Andava cercata una più radicale soluzione al problema del 'diverso'.

Un bel libro di Yosef Yerushalmi - Assimilazione e antisemitismo razziale: i modelli iberico e tedesco - parla della ‘limpieza de sangre’ spagnola che fonda l'antisemitismo razzista; punto di contatto quindi fra l'antigiudaismo cristiano ed il pensiero nazista con la sua soluzione finale della questione ebraica.

 

 

 

 

Ebrei che, pur avendo una cultura chiusa e refrattaria alle contaminazioni, nella loro tradizione religiosa prevedevano che la salvezza potesse esistere per chiunque, ebreo o no che fosse; sufficiente che fosse un ‘giusto’. Il diverso da sé poteva esistere, per loro, e vivere la sua vita.

E’ una piccola differenza dogmatica, quella cristiana, che ha determinato la grande differenza del razzismo. E quello che abbiamo visto a Torino, non raccontiamoci storie, è banalmente razzismo.


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